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  Europeisti alle vongole

 

   

“Italiani alle vongole” è un’espressione che i lettori abituali delle “scalfaresse” conoscono bene. Per chi non lo sapesse, le scalfaresse sono le omelie domenicali che Eugenio Scalfari pubblica sul giornale del quale è fondatore, la Repubblica.

    A dirla tutta, l’espressione non è un parto genuino della fantasia di Scalfari: a metterla in circolo furono gli uomini del sodalizio di Mario Pannunzio, fondatore del mitico settimanale di politica e letteratura il Mondo (facendo clic sul collegamento ipertestuale è possibile leggere la prima pagina del primo numero). Scalfari è colui che pretenderebbe oggi di essere l’erede di Pannunzio.[1]

    Italiani alle vongole sono dunque questi italiani volgarotti, sbracati e opportunisti, immancabilmente schierati dove c’è qualcosa da lucrare: denaro, potere, carriere, amicizie influenti. Gli italiani alle vongole sono, naturalmente, campioni del cosiddetto “familismo amorale”. Professano nei loro discorsi d’apparato alti ideali (che oggi si preferisce chiamare “valori”) e guai a chi non crede loro sulla parola. Se la tirano da uomini di conseguenza. Poi però, davanti ad un piatto di spaghetti con le vongole, perdono ogni ritegno: agitano rumorosamente le mandibole, succhiano, schizzano felici. Davanti alle vongole, gli ideali è gioco forza che vadano a farsi benedire. Del resto, gli ideali (i “valori”) servono per far denaro, o per far carriera. Quando si mangia, si mangia.

    Già, gli italiani alle vongole. E gli europei alle vongole, esistono anche gli europei alle vongole? I nostri amici progressisti – ne siamo sicuri – storcerebbero il naso. In Italia, negli ambienti che contano, si può essere anche antitaliani, ma antieuropei mai. Men che meno antieuropeisti. Perché questo significherebbe essere contrari all’euro, che noi in Italia non ci siamo limitati ad adottare come moneta di scambio. Certo, potevamo adottarlo e poi finirla lì. Alla malora il vile metallo, sterco del demonio! No, abbiamo voluto stabilire il culto dell’euro, siamo stati tutti cooptati – chi più, chi meno – nella nauseante mistica dell’euro, un culto stercorario nel quale Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi hanno dato il peggio di sé. Date queste premesse, “Se qualcuno si proclami antieuropeista, su di lui anatema!”.[2]

    A dire il vero, anche noi, nonostante la voluttà di essere sempre e comunque politicamente scorretti, riteniamo eccessivo professarci antieuropei, pur avendo poche, pochissime remore a dirci antitaliani, perlomeno se l’Italia è questa nella quale viviamo, pressoché controvoglia, e non l’Italia del Petrarca e – perché no? – di Garibaldi (che commise l’errore di consegnare l’Italia alla sabauda marmaglia, ed era un massone, ma era un uomo semplice e onesto). Ciò premesso, sarà pur lecito spendere qualche parola sull’europeismo di maniera? Speriamo di sì. E allora, perché non parlare degli “europeisti alle vongole”?

    Gli attuali europeisti alle vongole sono accomunati agli italiani alle vongole, quelli a suo tempo disprezzati da Pannunzio, dal questa loro proterva furbizia di bassa lega, mascherata da ideali che di per sé sarebbero tutt’altro che ignobili: laicismo, liberalismo, separazione dei poteri ecc. Anzi, tali ideali sarebbero anche i nostri (tranne il liberalismo, soprattutto se diventa liberomercatismo). Se non che questi ideali, masticati dagli europeisti alle vongole e triturati dalle loro mandibole insieme alle vongole, diventano ideali cialtroni. Consideriamo per esempio la lettura laicista dei fondamenti storici e culturali dell’Europa.

    Che l’Europa, la sua storia, la sua civiltà e le sue lingue abbiano una fortissima ascendenza cristiana, chi mai potrebbe negarlo? Ecco un esempio facile facile: perché in italiano diciamo “parola”? Cioè, posto che in latino “parola” si dice verbum, perché non diciamo “verbo” (usiamo anche questo vocabolo, è vero, ma con altro significato), ma diciamo “parola”, che deriva dal greco “parabola”? Semplice: perché Gesù si esprimeva per parabole; perché la lingua dei primi cristiani era il greco; perché, quando il greco fu sostituito dal latino, rimase “parabola”, a significare la parola del Cristo. Poi, trasformandosi il suono di “parabola” in “parola”, ecco che la parabola di Cristo divenne la parabola di tutti, nel senso di “parola” (e, paradossalmente, “verbo”, il termine latino, che era di significato comune, prese poi un significato sacro: “il Verbo che si è fatto carne”). Questa non è una dimostrazione completa delle radici cristiane dell’Europa, è soltanto uno degli innumerevoli esempi che ci portano ad affermare risolutamente, con ragionamento induttivo, le radici cristiane dell’Europa.

    Ovviamente, il laicismo non è figlio di ignoranza e stupidità. Perlomeno, solitamente non è così: basti pensare a Voltaire. Ma il laicismo che nega le radici cristiane dell’Europa, cioè il laicismo masticato dagli europeisti alle vongole, diventa un ideale cialtrone. Del resto, sentiamo che cosa ha da dirci in proposito Gianni Vattimo, una fonte laica e – immaginiamo – non sospetta:

 

A mio parere l’Europa moderna è determinata molto più dall’eredità giudaico-cristiana che da altre; si pensi ad esempio alla cultura greca, e all’importanza del concetto di democrazia che ci ha lasciato in eredità: certo, quello delle città greche era il primo modello di democrazia, ma è pur vero che poche persone partecipavano politicamente, mentre la grandissima parte della popolazione era esclusa (schiavi, donne ecc.).

    La predicazione cristiana è invece fondata sul concetto di fratellanza; penso qui al libro di Erich Auerbach, Mimesis, che ha come sottotitolo “Il realismo nella letteratura occidentale”: il cristianesimo si afferma proprio grazie al suo realismo, al fatto che si faccia attenzione alle persone in quanto tali. Nella tragedia greca, per continuare il paragone, i personaggi sono sempre re e figli di re. Gli stessi popolani, nelle commedie, sono introdotti per far ridere i nobili.

    L’attenzione anche letteraria per la vita quotidiana è data dalla tradizione cristiana. La modernità europea è insomma figlia della tradizione cristiana. Lo stesso Voltaire, per rifarci all’illuminismo, era certo più cristiano dei gesuiti e di Pio ix, quando predicava la fratellanza. L’Europa è il prodotto della tradizione classica, intensamente mediata da quella religiosa cristiana.

(Dal sito di Gianni Vattimo, sezione “News”)

Nel Preambolo della Costituzione per l’Europa pubblicata il 16 dicembre 2004 sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea i costituenti si dicono ispirati «alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, e dello Stato di diritto».[3] Leggiamo inoltre in un documento ufficiale attestante i vari passaggi dell’elaborazione della Costituzione che il «riferimento al Cristianesimo, chiesto in particolare da alcuni convenzionali [sic] italiani e polacchi è stato escluso dall’articolato vero e proprio; un richiamo ai “retaggi culturali, religiosi e umanistici dell’Europa” compare nel Preambolo». Infatti, le cose sono andate proprio così, per la gioia degli europeisti alle vongole.

     Ma la cosa più divertente è la topica nella quale incorsero i costituenti europei in una fase intermedia di elaborazione della Costituzione europea, a proposito dello stesso concetto di democrazia.[4] Per dare una patente di nobiltà alla propria concezione dell’Europa, secondo la quale l’apporto cristiano può essere tranquillamente messo in non cale, decidono di porre in esergo alla Preambolo della Costituzione europea una frase di Pericle, tratta dalla Guerra del Peloponneso di Tucidide.[5] Eccolo:

 

Xρώμεθα γὰρ πολιτείᾳ […] καὶ ὄνομα μὲν διὰ τὸ μὴ ἐς ὀλίγους ἀλλ' ἐς πλείονας οἰκεῖν δημοκρατία κέκληται·

 

Cioè (questa è la traduzione fornita nel documento siglato il 20 giugno 2003, nella trad. italiana):

 

La nostra Costituzione... si chiama democrazia perché il potere non è nelle mani di pochi, ma dei più.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, ii, 37

 

Così, secondo loro, noi saremmo serviti. La costituzione europea è democratica; inoltre la democrazia è veramente cosa degna e giusta, doverosa e salutare: lo dice anche Pericle. Ma Pericle voleva veramente dire questo? Non proprio. Pericle parlava della democrazia, è vero, non per farne l’elogio, ma per difendere Atene dall’accusa di essere democratica. Infatti, in epoca classica non esiste una teoria in favore della democrazia, che è un termine che troviamo esclusivamente nell’elaborazione teorica di parte aristocratica. Ciò che sappiamo della democrazia greca ci viene dall’anonimo autore della Costituzione di Atene, da Platone, da Senofonte che erano tutt’altro che “democratici”.

    La parola stessa di democrazia non indica l’accesso di tutti alla gestione del potere, un concetto che in greco è espresso dalla parola isonomía; indica, piuttosto, l’egemonia del popolaccio sull’intera cittadinanza. Ma sentiamo in proposito Luciano Canfora, eminente professore di Filologia greca, storico, polemista sottile e implacabile (per esempio, a proposito dell’autenticità del Papiro di Artemidoro):

 

Che la democrazia sia un’invenzione greca è opinione piuttosto radicata. Un effetto di tale nozione approssimativa si è visto quando è stata elaborata la bozza del preambolo della Costituzione europea (diffusa il 28 maggio del 2003). Coloro che, dopo molte alchimie, hanno elaborato quel testo – tra i più autorevoli, l’ex presidente francese Giscard d’Estaing – hanno pensato di imprimere il marchio greco-classico alla nascente Costituzione anteponendo al preambolo una citazione tratta dall’epitafio che Tucidide attribuisce a Pericle (430 a.C.). Nel preambolo della Costituzione europea le parole del Pericle tucidideo si presentano in questa forma: «La nostra Costituzione è chiamata democrazia perché il potere è nelle mani non di una minoranza ma del popolo intero». È una falsificazione di quello che Tucidide fa dire a Pericle. E non è per nulla trascurabile cercar di capire perché si sia fatto ricorso ad una tale “bassezza” filologica.

    Dice Pericle, nel discorso assai impegnativo che Tucidide gli attribuisce: «La parola che adoperiamo per definire il nostro sistema politico [ovviamente è modernistico e sbagliato rendere la parola politèia con “costituzione”] è democrazia per il fatto che, nell’amministrazione [la parola adoperata è appunto oikèin], esso si qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto alla maggioranza [dunque non c’entra il “potere”, e men che meno “il popolo intero”]». Pericle prosegue: «Però nelle controversie private attribuiamo a ciascuno ugual peso e comunque nella nostra vita pubblica vige la libertà» (II, 37). Si può sofisticare quanto si vuole, ma la sostanza è che Pericle pone in antitesi “democrazia” e “libertà”.

    […] Democrazia era il termine con cui gli avversari del governo “popolare” definivano tale governo, intendendo metterne in luce proprio il carattere violento (kràtos indica per l’appunto la forza nel suo violento esplicarsi). Per gli avversari del sistema politico ruotante intorno all’assemblea popolare, democrazia era dunque un sistema liberticida. Ecco perché Pericle, nel discorso ufficiale e solenne che Tucidide gli attribuisce, ridimensiona la portata del termine, ne prende le distanze, ben sapendo peraltro che non è parola gradita alla parte popolare, la quale usa senz’altro popolo (dèmos) per indicare il sistema in cui si riconosce. Prende le distanze, il Pericle tucidideo, e dice: si usa democrazia per definire il nostro sistema politico semplicemente perché siamo soliti far capo al criterio della “maggioranza”, nondimeno da noi c’è libertà.

L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004

 

A scusante degli europeisti alle vongole bisogna dire che Tucidide non è un autore facile, e che in particolare questo suo epitaffio (o epitafio, come scrive Canfora) presenta qualche difficoltà, per l’abilità retorica con cui è composto. Ma Canfora ha ragione da vendere, c’è poco da fare. Si veda anche la traduzione completa del capitolo 37, libro ii, della Guerra del Peloponneso, nel sito dell’Università di Lovanio, che è in sintonia con l’interpretazione di Canfora. Purtroppo non siamo riusciti a trovare in rete traduzioni italiane recenti, quelle antiche (perlomeno quelle in rete) lasciano a desiderare. In rete si trovano invece diverse traduzioni inglesi di questo brano. Per esempio abbiamo trovato una traduzione che accredita a Pericle una concezione positiva della democrazia: « Its administration favours the many instead of the few; this is why it is called a democracy», in accordo con la traduzione del Preambolo della Costituzione europea (bozza del 2003); ma abbiamo anche trovato una traduzione recente che suona così: « It is true that we are called a democracy, for the administration is in the hands of the many and not of the few. But while there exists equal justice…», che è in accordo con l’interpretazione di Canfora.

    Infine, una buona notizia: il “marchio greco-classico” tucidideo non è più impresso nel Preambolo della Costituzione europea, nell’ultima versione accreditata, quella del 2004. Che il merito sia di Canfora? A noi piace pensare di sì: una vittoria della filologia contro la protervia laicista (povero laicismo! laicismo presuntuoso e ignorantello, semmai, à la Odifreddi!) che non solo negava le radici cristiane dell’Europa (e purtroppo l’hanno spuntata), ma intendeva strafare, con l’aggiunta di Tucidide. Gli europeisti “laici” (laici?) si sono comportati come Paolo Rossi, che almeno, lui, è un comico.[6] Signori europeisti: surtout pas trop de zèle! Per parte nostra, noi che affermiamo le radici cristiane dell’Europa non abbiamo difficoltà a concedere che la storia e la cultura europea debbano molto, anzi moltissimo, al mondo classico e alla Rivoluzione francese. Non siamo fanatici. Nel bene come nel male (e, secondo noi, più nel bene che nel male) l’Europa discende dai nobili lombi del mondo classico (e ne siamo orgogliosi), dal seme libertario della Rivoluzione francese e perfino dal sogno cesarista dell’imperatore che ne seguì, Napoleone Bonaparte. Naturalmente, l’Europa è marcata indelebilmente dalla storia del Sacro Romano Impero, al quale proprio Napoleone pose fine con la battaglia di Austerlitz, nel dicembre 1805. Come negarlo? Ma voi, europeisti alle vongole, perché negate le radici cristiane dell’Europa?


 

[1] La paternità dell’espressione “italiani alle vongole”, contesa tra i vari membri del sodalizio, è tuttora d’incerta attribuzione. Secondo Giancarlo Perna, il vero padre sarebbe Vittorio de Caprariis (G. Perna, Scalfari. Una vita per il potere, Leonardo, Milano 1989). De Caprariis – meridionale come quasi tutti i componenti del sodalizio del Mondo, i quali, pur vivendo a Roma, si prendevano per inglesi, erano longilinei e vestivano giacche di flanella – fu storico e studioso di Alexis de Tocqueville, annoverato tra i fondatori della sociologia. Quanto all’eredità spirituale di Pannunzio rivendicata da Scalfari, è noto che tra i due ci fu rottura. Scalfari era troppo ambizioso e troppo movimentista per un gentiluomo come Pannunzio, nato a Lucca, ma di prosapia meridionale. Pannunzio vietò in punto di morte che Scalfari venisse ai suoi funerali, raccomandandosi presso un amico perché provvedesse in merito. L’episodio è ammesso dallo stesso Scalfari nel libro La sera andavamo in via Veneto. Si veda in proposito l’articolo di Eugenio Scalfari su Repubblica, 9 febbraio 2008.

[2] Sull’anatema si veda, sempre in questo sito, il filmato annesso all’articolo l’Accademia degli indignati.

[4] Si tratta del testo presentato al Consiglio europeo il 20 giugno 2003 da Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione europea. Lo si trova in rete facendo clic sul seguente collegamento ipertestuale: Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa.

[5] Questa frase è tratta da “La guerra del Peloponneso” di Tucidide, in particolare dall’Epitaffio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra, dal discorso cioè di Pericle pronunziato in commemorazione dei defunti della guerra del Peloponneso. Si era allora alla conclusione del primo anno di guerra, che però durò ben ventisette anni. Si contendevano l’egemonia sulla Grecia la Lega peloponnesiaca, guidata da Sparta, e la Lega delio-attica, guidata da Atene (431-404 a.C.). Nell’epitaffio Pericle fa l’elogio dei morti in guerra e ricorda il valore militare degli antenati. Quindi si sofferma sul percorso compiuto da Atene verso lo stato di splendore attuale (siamo nel 430 a.C.). Ed è qui che affronta il tema del sistema politico ateniese (o costituzione ateniese, come anche si dice, meno bene), non per dir bene della democrazia, affermando semmai il principio della “isonomia”, cioè dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (si veda anche, in seguito, quanto scrive L. Canfora). Pericle termina il discorso in crescendo, rivendicando ad Atene il titolo di scuola di tutta l’Ellade, affermando il privilegio di essere ateniesi e stabilendo la coincidenza tra felicità e libertà.

[6] Paolo Rossi ha stravolto l’epitaffio di Pericle in chiave antiberlusconiana. Inoltre: a) ha trovato un funzionario della Rai abbastanza cretino da censurarlo, così lui ha potuto fare il martire da Santoro; b) i soliti giornalisti, tutti a bocca aperta, dicevano che quello recitato Paolo Rossi era veramente l’epitaffio di Pericle. Era dunque come se Pericle avesse previsto le mosse e le nequizie di Berlusconi (però Pericle-Rossi non ha previsto la D’Addario, la pórne – per dirla in greco, visto che ci siamo occupati di cose greche – che si fa chiamare escort). Si veda la recita di Paolo Rossi da Santoro.