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La Pedretteide, la tirannia del politicamente corretto

e l’egemonia sindacale sul linguaggio

 

Rispondo a due obiezioni che sono state mosse a proposito dell’espressione “macelleria sociale”, impiegata nella Pedretteide.

 

 

Confutazione dei guardiani dell’ortodossia politicamente corretta

 

Prima obiezione: sarebbe politicamente scorretto parlare di “macelleria sociale”, come possibile conseguenza della provocazione architettata dal Pedretti. Ricordiamo, per la cronaca, che è agli atti la documentazione dalla quale risulta che «l’intervento era stato richiesto sollecitamente dall’assessore Pedretti, che sarebbe voluto essere presente durante il sopralluogo». L’ineffabile ex vicesindaco ha un bel negare, ridimensionare, precisare. Non a caso, arrivati a questo punto (vedi seduta del Consiglio comunale, il 29 dicembre), il Nostro vorrebbe chiudere la faccenda, vista la mala parata: ormai, quante più parole dice, tanto più s’intorta.

    Dunque, secondo alcune anime belle, non sarebbe politicamente corretto parlare di macelleria sociale perché così si darebbe per scontato che gl’islamici fossero oltre modo suscettibili e facili a una reazione terroristica. No, cari signori, vi piacerebbe ch’io avessi detto questo. Il punto è un altro: il punto è che il fondamentalismo non andrebbe mai né fomentato né suscitato, in nessuna direzione. Se tu, fra l’altro poco cristianamente, commetti un gesto odioso nei confronti degl’islamici, poi gl’islamici potrebbero essere portati a ripagarti con la stessa moneta. L’odio chiama odio, si sa. Il fanatismo religioso, lo sappiamo bene, non ha mai comportato niente di buono all’umanità, a cominciare dal sacrificio di Ifigenia: «Tantum potuit religio suadere malorum!», così Lucrezio. E per dimostrare che sono politicamente corretto, al di sopra di ogni sospetto, porterò l’esempio di due casi di fanatismo religioso dei quali noi cristiani (parlo per me: noi pessimi cristiani) ci vergogniamo.

    Primo esempio: ci vergogniamo dello strazio fatto ad Alessandria d’Egitto, nel v sec. d.C., sul corpo di Ipazia, filosofa platonica, lacerato dalle conchiglie taglienti (o erano cocci?) brandite da una torma di cristiani fanatici.

    Secondo esempio, per non andar troppo lontano nel tempo: ci vergogniamo delle streghe abbruciate in Valcamonica nel xvi sec., nonché del “Sacro macello di Valtellina” (l’espressione è dello storico Cesare Cantù) nel xvii sec., consumato dai cattolici nei confronti dei protestanti.

    Adesso è chiaro? Ho dimostrato a sufficienza che non ho pregiudizi di sorta? A proposito: con quale autorità certe persone, che in tutta la loro vita – come si dice – non ne hanno azzeccata una, s’impancano a giudici e chiedono agli altri credenziali di politicamente corretto? A ogni buon conto, i guardiani dell’ortodossia politicamente corretta sono serviti.

 

 

Facendo “doppio clic” sull’iconcina qui sopra, è possibile visualizzare in formato pdf  l’opera di Cesare Cantù, Il sacro macello di Valtellina (questa è l’edizione fiorentina: la prima edizione è milanese, del 1832). Scrive il Cantù in questo libro: «Guai se la plebe comincia a gustare il sangue! È un ubbriaco che più beve, più desidera il vino».

 

 

Contro l’egemonia linguistica rivendicata da giornalisti e sindacalisti

 

Seconda obiezione: non sarebbe linguisticamente corretto parlare di macelleria sociale, perché «da quando la dizione è entrata nella letteratura sindacale e giornalistica […] per “macelleria sociale” s’intende, per esempio, una drastica riduzione dei salari o delle pensioni» (questo è quanto si legge, per esempio, in un commento del blog dell’Udc di Curno). Oh bella! I sindacalisti avrebbero il diritto di mettere cappello su parole e locuzioni che esistono da molto prima di loro! Non sta né in cielo né in terra, per le ragioni che espongo qui di seguito.

 

1. “Macelleria” è una metafora utilizzata dai liberi pensatori per indicare la guerra con pienezza di significato e manifesto spregio. Per esempio, Voltaire introduce nel suo Candide, cap. iii, il sublime ossimoro di boucherie héroïque, “macelleria eroica”: «Candide, qui tremblait comme un philosophe, se cacha du mieux qu’il put pendant cette boucherie héroïque». In particolare, i liberi pensatori spesso hanno fatto ricorso al termine “macelleria” con riferimento alle guerre di religione, dove opposte fazioni si macellano a vicenda, in nome del proprio Dio. Si veda in proposito l’espressione “Sacro macello”, sopra ricordata, introdotta da Cesare Cantù, probabilmente con l’esplicita intenzione di fare un calco dell’espressione volterriana.

2. “Sociale” si riferisce, in generale, a coloro che sono socii, cioè partecipi, associati, congiunti (non necessariamente nel senso di “parenti”), che vivono in una società. Non ha necessariamente una connotazione di giustizia sociale o perequazione sindacale. Perciò la guerra che i municipi finora alleati di Roma (siamo nel 91 a.C.), cioè socii, indissero contro Roma, prende il nome di “guerra sociale”: lo scopo che si prefiggevano era diventare a pieno titolo cittadini romani, cosa che di fatto ottennero.

 

Dunque una guerra sociale è una guerra fra gruppi organizzati in precedenza alleati. Se, sull’esempio di Voltaire, vogliamo utilizzare la metafora della macelleria, diremo “macelleria sociale”: la quale è, appunto, ciò che fa strame dei vincoli di convivenza pacifica tra classi di cittadini che finora avevano intrattenuto buone relazioni. La macelleria sociale è precisamente quel che sarebbe potuto succedere a Curno, se Pedretti avesse messo a segno la sua provocazione.

    Ora, se i sindacalisti vogliono assumere la metafora volterriana della macelleria in un’accezione ristretta, riguardo alle questioni sindacali, in particolare per quanto riguarda salari e pensioni, liberissimi di farlo. Ma che non ci si venga a dire che si può parlare di macelleria sociale solo nell’accezione sindacale. Perché “guerra sociale” si è sempre detto: basta consultare un qualsiasi libro di storia romana. E la metafora della macelleria è di Voltaire, non può essere sequestrata da giornalisti e sindacalisti.

    D’altra parte, da quando in qua in campo linguistico dettano legge giornalisti e sindacalisti? Aver abbandonato l’Accademia della crusca per gettarsi nelle braccia dei sindacalisti è come cadere dalla padella nella brace. Meglio far a meno di entrambi. Perché, se dovessimo star dietro alle storture linguistiche dei sindacalisti, dovremmo prendere per buona questa nuova espressione, che impazza da qualche mese a questa parte nelle colonne dei giornali: “aprire il tavolo delle trattative”. Una persona normale pensa: aprire con quale strumento, forse con una motosega? O forse il riferimento è a quei tavoli estensibili, quelli con due prolunghe, in vendita all’Ikea per 199 €? “Aprire un tavolo” è un’espressione assolutamente ridicola, nata probabilmente dalla contaminazione di due espressioni: “aprire un discorso, una trattativa” e “sedersi a un tavolo, per trattare”. Eugenio Scalfari direbbe che è un ircocervo. In ogni caso è un’espressione orribile, disgustosa. Noi non la useremmo mai, neanche sotto il ricatto di un terrorista linguistico che minacciasse di porre fine alla sua e alla nostra vita insieme, tirando la cordicella dell’ordigno che porta legato alla cintura.

 

 

A sinistra, frontespizio della prima edizione del Candide di Voltaire (1759), pubblicata a Parigi, sotto pseudonimo. Allora, più che mai, usava presentarsi sotto mentite spoglie. A destra, due pagine della prima traduzione inglese (1762).