Premetto che non ho niente contro
l’Italia e contro «le genti del bel paese là dove ’l sì suona»: così
si esprime Dante nel canto
xxxiii dell’Inferno, quello del conte Ugolino: «Ahi
Pisa, vituperio de le genti // del bel paese là dove ’l sì suona, //
poi che i vicini a te punir son lenti…». Sono d’accordo con
Petrarca, che nel sonetto
cxlvi del Canzoniere scrive: «Il bel paese //
ch’Appennin parte e ’l mar circonda e l’Alpe». Sono orgoglioso
d’essere italiano, ancorché schifato da questa classe politica (che
purtroppo è stata eletta dagl’italiani d’oggi, non certo dagli
italiani illustri che mi riempiono il cuore d’orgoglio).
Adde huc (“A questo
aggiungi il fatto che”) sono pronipote di un garibaldino, del quale
conservo ricordi che mi portano al tempo in cui da bambino andavo a
casa di mia nonna, una specie di paradiso, almeno per me. Mia nonna
non era incline al sentimentalismo, ma si capisce che le piaceva
raccontare certi episodi di casa sua. Quello che più m’intrigava era
che mio bisnonno, per fare il tamburino al seguito di Garibaldi,
fosse fuggito di casa a sedici anni: per la verità su questo lei era
avara di particolari, perché non era un bell’esempio da raccontare
al nipotino. E poi lei non c’era, al tempo della fuga. Però la fama
era che nonno Luigi (si chiamava Luigi Belingardi, era un conte
squattrinato) prima di lasciare Bergamo, avesse gettato i libri nel
Serio. Così raccontava nonna Teresita, la quale si chiamava
Teresita, perché questo è un nome garibaldino (le sorelle si
chiamavano Anita e Rosita). Dove il nonno garibaldino fosse partito
non riesco a ricordare, forse mia nonna si è dimenticata di dirmelo:
però, facendo conto di certi riferimenti, che trascuro di dire,
è molto probabile che abbia partecipato all’ultima impresa
garibaldina, con i volontari nell’“esercito dei Vosgi”, in difesa
dei cugini francesi invasi dai boche, cioè dai prussiani. Se
le cose stanno così, sono doppiamente orgoglioso.
[Aggiornamento del 29 dicembre - Nella mia stima, qui
sopra, mi sono sbagliato di quattro anni. In realtà mio bisnonno
combatté nella Terza guerra d’Indipendenza italiana (1866), nel
tentativo, riuscito, di forzare le difese austriache e invadere il
Trentino. Sono riuscito a scovare queste notizie nel libro: Ottone
Brentari, Il secondo battaglione Bersaglieri volontari di
Garibaldi nella campagna del 1866, Tip. Agnelli, Milano 1908.
Vedi a p. 305: «Belingardi Luigi di Francesco, bersagliere della
quarta compagnia, arruolato dopo il 1° luglio 1866. Vive a Bergamo»[1].]
Diceva mia nonna che, nei
momenti in cui si sentiva triste, nonno Luigi si rifugiava in un suo
studiolo, contenente i ricordi garibaldini, e che quando avveniva
che parlasse di Garibaldi gli occhi gli si facevano lucidi
(evidentemente, al contrario della figlia, era un sentimentale).
Immagino che provenisse da quello studiolo il bassorilievo di
Mazzini che mia nonna aveva portato nella nuova casa, da sposata: si
trovava nella biblioteca, dalla quale poi, dopo un certo numero di
traslochi, è finito a casa mia, nel mio antro di Trezzo sull’Adda.
C’era anche un bassorilievo di Garibaldi, ma non so che fine abbia
fatto.
Sempre in quella biblioteca, che prendeva luce da una porta finestra
affacciata a un giardino che nei miei ricordi appare lussureggiante,
e invece doveva essere un normale giardino, con un po’ di fiori
(ricordo le rose, le ortensie rosa e turchese) e qualche albero da
frutto, si conservava, nella scaffalatura inferiore, un libro di
grande formato. Scritto dalla moglie di un garibaldino, Jessie White
Mario, il libro s’intitolava Garibaldi e i suoi
tempi: una
bella edizione ottocentesca, con incisioni a piena pagina. A margine
portava le note di nonno Luigi. Ne ricordo una, più o meno di questo
tenore: «Mentre leggo con rinnovata commozione le imprese dell’uomo…
nasce qui accanto mio figlio Mario…». Era l’ultimogenito. (Non so
che fine abbia fatto il libro di mio bisnonno, teoricamente dovrebbe
essere conservato in una biblioteca comunale, alla quale era stato
regalato. A ogni buon conto, ne ho procurato un nuovo esemplare, in
una libreria antiquaria.) Ma qui mi
fermo, mi limito a presentare un’immagine di nonno Luigi, tratta da
un dagherrotipo che conservo al riparo dalla luce che facilmente lo
rovinerebbe. Per questo è montato in una tavoletta, incernierata su
un’altra uguale, così da sembrare un libretto, elegantemente
rilegato in pelle: il libretto viene aperto soltanto per guardare l’immagine, poi si
chiude.
Adesso spiego perché l’inno di
Mameli non mi piace. Prima però leggiamo le parole dell’inno di
Mameli.
Il
testo dell’Inno di Mameli
Trascrivo qui di seguito il testo
dell’Inno di Mameli o Il Canto degli Italiani, scritto
da Goffredo Mameli nell’autunno del 1847 (tratto da: I Poeti
minori dell'Ottocento, a c. di Ettore Janni, Rizzoli, Milano
1955). Il testo fu posto in musica da Michele Novaro. Per
approfondimenti si veda la pagina dedicata all’Inno di Mameli
nel sito della Presidenza delle Repubblica italiana,
qui.
1.
Fratelli d’Italia,
L’Italia
s’è desta;
Dell’elmo
di Scipio
S’è cinta
la testa.
Dov’è la
Vittoria?
Le porga la
chioma;
Ché schiava
di Roma
Iddio la
creò.
Stringiamoci a coorte,
siam pronti
alla morte;
l’Italia
chiamò.
2.
Noi siamo da secoli
Calpesti,
derisi,
Perché non
siam popolo,
Perché siam
divisi.
Raccolgaci
un’unica
Bandiera,
una speme;
Di fonderci
insieme
Già l’ora
suonò.
Stringiamoci a coorte,
siam pronti
alla morte;
l’Italia
chiamò.
3.
Uniamoci, amiamoci;
L’unione e
l’amore
Rivelano ai
popoli
Le vie del
Signore.
Giuriamo
far libero
Il suolo
natio:
Uniti, per
Dio,
Chi vincer
ci può?
Stringiamoci a coorte,
siam pronti
alla morte;
l’Italia
chiamò.
4.
Dall’Alpe a Sicilia,
Dovunque è
Legnano;
Ogn’uom di
Ferruccio
Ha il core
e la mano;
I bimbi
d’Italia
Si chiaman
Balilla;
Il suon
d’ogni squilla
I Vespri
suonò.
Stringiamoci a coorte,
siam pronti
alla morte;
l’Italia
chiamò.
5.
Son giunchi che piegano
Le spade
vendute;
Già
l’Aquila d’Austria
Le penne ha
perdute.
Il sangue
d’Italia
E il sangue
Polacco
Bevé col
Cosacco,
Ma il cor
le bruciò.
Stringiamoci a coorte,
siam pronti
alla morte;
l’Italia
chiamò.
Perché
l’Inno di Mameli non ci piace
Vi ricordate Luca Cupiello,
protagonista di Natale in casa Cupiello, opera teatrale di
Eduardo De Filippo? Il padre Luca, appassionato di presepi, ne
costruisce uno. Ma non gli basta, continua a domandare al figlio
Nennillo: “Te piace ’o presebbio?”. E lui, indifferente: “Non mi
piace”.
Qualcosa del genere succedeva a
me, con l’Inno di Mameli. Più lo sentivo, meno mi piaceva.
Non solo perché ero un ragazzo di sinistra, e a quel tempo l’Inno
piaceva pochissimo, soprattutto da quelle parte. Oggi è diverso,
oggi a sinistra (alla c.d. sinistra) l’Inno piace, ma in
funzione antileghista. Ciampi, quello che va in visita alla Banca
d’Italia, “sente il nume” di Mammona e si commuove (dico cose vere,
hypotheses non fingo) ne aveva fatto un tormentone.
Adesso ho capito perché non mi
piaceva. Sì, certo la musica, questa marcetta… Ma avete mai sentito
God save the Queen (fare clic sul collegamento ipertestuale)? O
anche
Conservet Deus su Re, l’inno del Regno di Sardegna? (Si noti la
forma “conservet”: un congiuntivo esortativo, proprio come in
latino.) Ma il punto importante è che la musica mi rimandava alle
parole. Erano le parole che mi davano fastidio. Allora non lo
sapevo, adesso so perché. Detesto la retorica.
Contro la retorica
Ho cominciato a studiare un po’ di
retorica al tempo dei sermoni di Oscar Luigi Scalfaro. Non lo
sopportavo. Quest’uomo che assume volontariamente la carica di
vicepresidente del Tribunale di Novara e in qualità di magistrato di
una Corte d’Assise straordinaria sostiene la pubblica accusa contro
Enrico Vezzalinie ne ottiene la condanna a morte per reati di guerra (settembre
1945), avrà anche avuto ragione a fare quel che ha fatto. Ma poi
perché ci fa sapere che ha pianto, a causa della condanna a morte?
Non faceva prima a dare le dimissioni da magistrato, prima di
chiedere la condanna? Oppure avrebbe potuto far di tutto per
evitarla, quella condanna, come fa il giudice del romanzo di
Sciascia, A porte aperte. Scalfaro è lo stesso uomo che un
giorno (siamo nel 1950) vede in un ristorante una signora
scandalosamente scollata: si turba, le si avvicina, le assesta uno
schiaffo. Questi è lo stesso Scalfaro che s’impanca a nostro maestro
di vita? Quello che ci parla di etica? Ma quando mai!
Come potevo smontare
scientificamente i suoi sermoni? Studiando la retorica, appunto.
Lessi tutta la Rhetorica ad Herennium, poi altri libri
ancora. Feci i primi progressi esercitandomi sui sermoni di Scalfaro
dei quali annotavo tutti i paralogismi, tutte le fallacie logiche,
tutti i lenocini retorici.
Breve analisi delle
ultime due strofe dell’Inno di Mameli
Per non cadere nell’errore di essere
a mia volta retorico, mi esprimo per punti, con espressione asciutta
il più possibile. Questa breve analisi si riferisce, in particolare,
alle ultime due strofe del
testo sopra riportato.
·È un inno cattivo, ridondante
di sentimenti antitedeschi (si ricorda Legnano, ma si dimentica che
Lodi fu distrutta dai Milanesi, e ricostruita – su un colle vicino –
dal Barbarossa).
·Si nomina Francesco Ferrucci
trafitto da Maramaldo, al seguito di Carlo
v, ma si dimentica che il
Ferrucci aveva violato la legge che impone il rispetto per gli
ambasciatori (aveva fatto impiccare un messaggero di Maramaldo).
·Si parla di Balilla, ma si
dimentica che Balilla resistette a un contingente di
Austro-piemontesi, dunque se noi siamo con Balilla, siamo contro i
piemontesi.
·Non mancano i sentimenti
antifrancesi (vedi il riferimento ai Vespri siciliani).
·Si stigmatizza l’uso dei
mercenari (le “spade vendute”), come se il mestiere delle armi non
fosse stato a quel tempo, come oggi il “made in Italy”, una voce
importantissima nella bilancia dei pagamenti: i mercenari non erano
mica tutti lanzichenecchi.
·Conclude l’inno un saggio di
retorica dozzinale contro l’aquila bicipite austriaca, che si
vorrebbe spennacchiata, e per giunta assetata di sangue.
·Infine, con conoscenza
approssimativa della storia, si identifica la Santa Russia con le
popolazioni nomadi tartare, le loro discendenze e rimescolamenti
etnici (il “Cosacco”).
Insomma quest’inno è tutto un
livoroso guazzabuglio di sentimenti in contraddizione con la civiltà
europea. Mentre irride alle altre nazioni europee, non spende
neanche una parolina in favore della civiltà italiana: c’è un elogio
dell’imperialismo romano (che è un’altra cosa), ma dov’è la corte di
Federico II a Palermo, dove la Firenze di Cosimo de’ Medici, dove
l’illuminato governo della Serenissima?
L’ho detto, sono orgoglioso di
essere italiano, ma anche di essere dotato di senno. Quest’inno non
aggiunge niente al mio orgoglio di italiano, ma offende la mia
intelligenza, come essere razionale.
Ma il Canto degli
Italiani è veramente del Mameli?
Per giunta c’è il sospetto che sia
un inno scopiazzato, tal quale, dal giovine Goffredo Mameli, a
partire da un componimento che un suo precettore al collegio di
Carcare, nell’entroterra savonese, gli aveva dato da leggere. Era
questi un padre scolopio (padre Canata), seguace di Gioberti, devoto
di Pio ix. Il giovane Mameli, dopo aver trascritto il testo dello
scolopio, lo inviò a Michele Novaro, che lo mise in musica quasi di
getto. «Padre Canata si tenne dentro il cuore quel segreto per
“generosità”, per non offuscare l'immagine di colui che nel giro di
pochi anni era diventato un eroe del Risorgimento (morì a 22 anni)».
Si veda in proposito l’articolo del Corriere della Sera
riportato qui sotto.
Leggiamo sui giornali che un pronipote di Mameli afferma, invece,
che il carme è opera proprio del suo avo: Ma lui come fa a saperlo?
Conta di più il suo orgoglio di pronipote, o l’analisi critica di
Aldo A. Mola nel volume Storia della monarchia in Italia, Bompiani,
Milano 2002, pp. 367-369? C’è da dire che a dimostrazione del fatto che
l’inno sia stato composto dal giovane Mameli, il pronipote poteva
portare un argomento, uno solo, ma non l’ha portato: è talmente poco
poetico, quest’inno, che si dubita che sia stato composto dal
precettore di un collegio! Però è pur vero che il nostro ministro
Bondi è un poeta. E che lo è anche Vendola.
L’articolo
del Corriere della Sera
Ma che Mameli, Fratelli d’Italia è l’inno di Canata
Ecco l’articolo pubblicato sul
Corriere della Sera il 24 dicembre 2002. È singolare che, mentre l’articolo è
rintracciabile in
diversi siti Internet, per esempio
qui, sia tuttavia
scomparso
dall’Archivio del Corriere della sera (non lo si
trova né con il motore di ricerca generalizzato, né
spulciando tutti gli articoli raccolti nell’Archivio
cronologico: sono sicuro di quel che dico, e ho una
certa pratica di queste cose). Ad ogni buon conto,
conservo un ritaglio dell’articolo, che ho provveduto a
scandire (“scandire” e non
“scannerizzare”!), per la delizia di coloro che hanno
pensato bene di farlo scomparire dall’Archivio (dove
pure si trovava): si veda l’immagine qui sotto.
Val la
pena leggere anche
questa pagina, tratta dal sito Essere liberi,
che ci aiuta a capire meglio l’articolo, dove figura un
errore di trascrizione. Le parole con cui padre Canata
si lamentava del plagio sono queste: «Meditai robusto un
canto / ma venali menestrelli / mi rapian dell’arpa il
vanto...» (l’espressione “si
rapina dell’arpe un vanto”, come
si legge nell’articolo, è poco congruente con il
soggetto della proposizione, ed è inutile lectio
difficilior).
L’inno di Mameli non è di Mameli,
ma di un padre scolopio. Il giovane Goffredo ricopiò in
bella (senza nemmeno una cancellatura, ma con l’aggiunta
di una strofa con un macroscopico errore), un testo
scritto nel 1846 da padre Atanasio Canata e lo inviò nel
novembre 1847 all’amico Michele Novaro che lo mise in
musica quasi di getto, secondo la testimonianza di Carlo
Alberto Barrili. Già in dicembre l’inno fu eseguito
davanti a Carlo Alberto. Padre Canata si tenne dentro il
cuore quel segreto per «generosità», per non offuscare
l’immagine di colui che nel giro di pochi anni era
diventato un eroe del Risorgimento, un’icona
dell’indipendenza italiana, sia per la precocissima
morte, a 22 anni, sia per la fulminea diffusione del
«canto degli italiani». Ma più tardi, prima di morire,
padre Canata rivendicò indirettamente, ma con precisa
indicazione, la paternità di quel testo che gli era
stato «rubato». Scrisse infatti nell’ode Il vate: «A
destar quell’alme imbelli / meditò robusto un canto; /
ma venali menestrelli / si rapina dell’arpe un vanto: /
sulla sorte dei fratelli / non profuse allor che pianto,
/ e, aspettando, nel suo core / si rinchiuse il pio
Cantore». Questo testo fu composto nel 1849, ma
pubblicato nel volume Versi solo nel 1889.
La grave accusa a Goffredo
Mameli viene formulata dallo storico Aldo A. Mola nel
volume Storia della monarchia in Italia, mandato
in libreria da Bompiani (940 pagine, 30 euro). Nelle
pagine 367-369 lo studioso espone una serie di dati per
dimostrare la sua tesi. Poiché non esiste l’originale di
padre Canata, Aldo A. Mola ha lavorato su molti indizi.
«Prima di tutto la datazione –
dice Mola –. Non è sufficiente la data, novembre 1847,
apposta da Mameli alla trascrizione dell’in no, per
stabilire quando il testo fu composto. L’inno rimanda a
eventi del 1846. Sottolinea l’adesione al “primato degli
italiani” di Gioberti e all’unione dietro un’unica
bandiera. La citazione di Balilla si collega al convegno
degli scienziati a Genova dal 15 al 29 settembre 1846:
da quel momento il “balilla” venne evocato più volte
come simbolo di rivolta. Ma ci sono molti altri
particolari».
Mameli nel settembre 1846 fu
condotto dal padre scolopio Raffaele Ameri nel collegio
di Carcare (Savona). Aveva 19 anni e aveva già
precedenti insurrezionali. La polizia piemontese lo
cercava: proprio per questo la famiglia decise di
mandarlo a «riflettere» nel collegio dove già aveva
studiato il fratello Giovanni Battista. C’è la
testimonianza di padre Ameri. Lo stesso Mameli invia una
lettera all’avvocato Giuseppe Canale, in cui mostra di
padroneggiare poco la grammatica e la sintassi. Commenta
Mola: «Lo scrittore non può aver scritto l’inno Fratelli
d’Italia, il testo è troppo complesso, elaborato e pieno
di riferimenti storici».
Padre Canata era un patriota,
sostenitore dell’unità, ma devoto di Gioberti, Rosmini e
Pio IX. In una poesia anticipò «la patria chiamava
severa», come più tardi l’«Italia chiamò» del Canto
degli italiani. E quando l’inno divenne famoso, padre
Canata non protestò, per non sbugiardare l’eroe. Ma per
le orecchie intelligenti lasciò scritto il suo
risentimento per il «menestrello» ladro. «E non solo;
nella Gazzetta letterata padre Canata vibrò
un’altra staffilata – aggiunge Mola –. Scrisse infatti:
“E scrittore sei tu? Ciò non ti quadra... / Una gazza
sei tu garrula e ladra”. Ulisse Borzino, quando consegnò
il testo al musicista Novaro gli disse: “To’, te lo
manda Goffredo” e non “È di Goffredo”. C’è una bella
differenza!».
«Nell’inno non c’è alcun
accenno ai Savoia, a Carlo Alberto, al Papa. Il
riferimento è solo all’Italia che “chiamò” – precisa
Mola –. Il testo è quindi frutto di una mente sottile,
quale Mameli non dimostrò mai in tutte le poesie
lasciate». Ma è così importante sapere che l’inno non è
di Mameli ma di padre Canata? «Sì – risponde Mola –. Se
autore è padre Canata, come è, si comprende meglio come
si formò lo spirito unitario italiano verso
l’indipendenza. Al Risorgimento parteciparono tutte le
forze, anche quelle cattoliche. Proprio Fratelli
d’Italia lo dimostra nei versi “uniti per Dio / chi
vincer ci può?».
Ottavio Rossani
L’affissione
dell’Inno
di Mameli
obbligatoria nelle scuole italiane?
Per iniziativa del Pdl e in
occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stata
presentata in Parlamento, il 17 marzo 2010, la proposta di legge n.
3331 “Affissione dell’inno Il canto degli italiani, di
Goffredo Mameli, negli istituti scolastici primari e secondari di
primo grado”. Il testo del disegno di legge può essere letto
qui, la proposta deve ancora essere approvata dalla Camera.
I professori della scuola
italiana, così gelosi delle loro prerogative, come la prenderanno?
Ah, dimenticavo: per l’Inno di Mameli si potrebbe fare
eccezione, in chiave anti-leghista, come si è ricordato sopra. Io
però, che ho militato a sinistra, quando la sinistra era dalla parte
dei lavoratori, e che ho memoria elefantina, ricordo benissimo che
l’Inno di Mameli non godeva di buona fama, a sinistra.
Notoriamente, i professori della scuola italiana militano a sinistra
(a proposito: capisco le schiappe, capisco meno i professori che
valgono, i quali farebbero bene a prendere atto del fatto che chi è
veramente di sinistra deve votare contro questa sinistra,
come d’altronde, ogni tanto, si legge sul Fatto quotidiano:
viva la sincerità!)
Nel resistere a questa
disposizione da Minculpop (per il momento soltanto un’intenzione), i
professori delle scuole italiane potrebbero ricordare che l’Inno
di Mameli non piacque a Mazzini, non piacque a Cattaneo,
«sembrò enfatico anche a ferventi patrioti» (si veda questo
articolo sulla Repubblica, 28 maggio 2002), non piacque
nemmeno al maestro Muti, che si rifiutò d’intonarlo
all’inaugurazione del Teatro alla Scala, nel 1999, provocando la
reazione sdegnata del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi (La Repubblica, ibid.). Poi però Muti ha
mutato parere parere, tanto da diventare – sembra – uno dei
principali supporter del contestato inno.
L’Inno di
Mameli strumentalizzato a fini di politichetta locale
La proposta di legge n. 3331 è una
proposta di legge nazionale: che cosa c’entrano i politici locali,
gli amministratori comunali? Niente, appunto. Va bene, sarà anche
così, ma se un amministratore comunale vuol mettersi in mostra,
qualcosa dovrà pur fare, o no? Ed ecco la trovata: c’è qualcuno che
a livello istituzionale, a parte i leghisti, abbia il coraggio di
dire che l’Inno di Mameli con gli piace? Generalmente no.
Bene, il gioco è fatto: io presento in Comune una mozione “a
sostegno della mozione nazionale”, che poi non si sa bene che cosa
significhi questo sostegno locale. Ma che importa? Voi, cari
colleghi amministratori, siete con le spalle al muro e, se appena
appena nicchiate, io ho la mia brava visibilità. Anzi, speriamo che
i leghisti facciano decise rimostranze, possibilmente sboccate: più
se ne parla, meglio è (per me).
Se qualcuno pensa che noi si
stia esagerando, nel descrivere in termini così riduttivi (e
ridicoli) la nobile arte esercitata dagli amministratori locali del
Bel paese, ecco la controprova. Siamo a Curno, a 6,5 km dal centro
di Bergamo, praticamente un borgo di Bergamo. Curno conta 8.000
abitanti, che non sarebbero neanche pochi, ma, nelle intenzioni
della classe politica locale, deve essere gestito con criteri
rigorosamente paesani. Infatti, il giorno 22 settembre Curno si
appresta a dare il suo determinante e paesano sostegno alla proposta
di legge nazionale n. 3331. Roba da far tremare le vene e i polsi (o
da far ridere i polli?). Stupendo, i piccoli politici di Curno
giocano a fare la politica nazionale. Perché non anche la politica
internazionale? Era quel che faceva La Pira, ai tempi in cui era
sindaco cattolicissimo di Firenze. Con la differenza, però, che
Firenze fu una potenza (finanziaria) mondiale, e che La Pira era un
santo (viveva in una stanzuccia disadorna, con un lettuccio e un
canterano, non possedeva villoni, neanche villette con in nanetti di
gesso, inoltre i macchinoni e i Suv – se ci fossero stati – gli
avrebbero fatto schifo). Curno invece? E i protagonisti della
politichetta curnense?
A mo’ di provocazione
intellettuale per i signori politici, propongo l’ascolto dell’Inno
a Oberdan (ne trovate le parole
qui). Ricordo che Oberdan aveva organizzato nel 1882 un
attentato contro l’imperatore Francesco Giuseppe, in visita a
Trieste. Le intenzioni dell’Oberdan vennero tuttavia intercettate
dalla polizia austriaca, l’agguato non fu mai messo a segno e
Oberdan fu condannato a morte. Milano ha dedicato all’irredentista
triestino una piazza, dietro Porta Venezia. Treviglio gli ha
dedicato un Istituto tecnico commerciale.
Tema (per i consiglieri del
Comune di Curno):
Confrontate le parole dell’Inno a Oberdan con quelle dell’Inno
di Mameli e svolgete le vostre considerazioni in relazione al
contesto storico-politico, sia quello all’epoca di composizione dei
due inni, sia quello attuale.
♣
P.S. per
Pedretti - Egregio consigliere comunale / regionale, da
un po’ di tempo lei ha preso l’abitudine di attingere da Aristide –
senza chiedere permesso e senza citare la fonte – espressioni
linguistiche e qualche concetto mal digerito (da lei, ovviamente).
Lo fa nel blog dell’Udc, immagino che lo faccia anche altrove, per
esempio per fare bella figura con gli amici peones nel Consiglio dei
Lombardi. Se per caso questo articolo le è piaciuto, in tutto o in
parte, è pregato di
non saccheggiarlo e di non far passare il frutto della sua rapina per farina del suo sacco.
Se proprio vuole attingere, almeno citi la fonte. Non è obbligato a dire
che il testo copiato è nato dalla penna (una Rapidograph) di Aristide, non ho smanie
di visibilità. Sarà sufficiente citare Testitrahus.
♣
[1] Ricordo brevemente i fatti salienti di
quella guerra. Dopo la sconfitta delle truppe italiane a
Custoza, presso Verona (24 giugno 1866), dopo la disfatta navale
a Lissa, al largo della costa dalmata (20 luglio) e dopo la
vittoria di Garibaldi a Bezzecca, nel Trentino (21 luglio),
l’Italia prepara l’armistizio. Perciò La Marmora intima a
Garibaldi di sgombrare il Trentino entro 24 ore. Garibaldi
risponde il 9 agosto con il celebre telegramma: «Obbedisco»
(vedi qui accanto).
Si
noti che la nostra Terza guerra d’indipendenza rappresenta il
fronte meridionale di una guerra più vasta, la Guerra
austro-prussiana che vede schierato l’Impero d’Austria contro il
Regno di Prussia, che conta tra gli alleati il Regno d’Italia.
La strepitosa vittoria prussiana a Sadowa segna le sorti della
guerra austro-prussiana e induce l’Austria a sottoscrivere
l’armistizio con la Prussia, il 26 luglio. L’armistizio con
l’Italia viene dopo, il 12 agosto. Peraltro l’Impero d’Austria,
che aveva riportato l’importante vittoria terrestre di Custoza e
a Lissa aveva sgominato la flotta comandata dall’ammiraglio
Persano, non si considerava sconfitta dal Regno d’Italia, che ottenne Mantova e il Veneto solo in maniera indiretta.
Le province perdute, infatti, passarono alla Francia, che ne
fece dono all’Italia. Il Trentino, dove Garibaldi era stato
vittorioso, rimane all’Austria.