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settembre 2010

Retorica dell’Inno di Mameli

 

Premessa garibaldina

Premetto che non ho niente contro l’Italia e contro «le genti del bel paese là dove ’l sì suona»: così si esprime Dante nel canto xxxiii dell’Inferno, quello del conte Ugolino: «Ahi Pisa, vituperio de le genti // del bel paese là dove ’l sì suona, // poi che i vicini a te punir son lenti…». Sono d’accordo con Petrarca, che nel sonetto cxlvi del Canzoniere scrive: «Il bel paese // ch’Appennin parte e ’l mar circonda e l’Alpe». Sono orgoglioso d’essere italiano, ancorché schifato da questa classe politica (che purtroppo è stata eletta dagl’italiani d’oggi, non certo dagli italiani illustri che mi riempiono il cuore d’orgoglio).

     Adde huc (“A questo aggiungi il fatto che”) sono pronipote di un garibaldino, del quale conservo ricordi che mi portano al tempo in cui da bambino andavo a casa di mia nonna, una specie di paradiso, almeno per me. Mia nonna non era incline al sentimentalismo, ma si capisce che le piaceva raccontare certi episodi di casa sua. Quello che più m’intrigava era che mio bisnonno, per fare il tamburino al seguito di Garibaldi, fosse fuggito di casa a sedici anni: per la verità su questo lei era avara di particolari, perché non era un bell’esempio da raccontare al nipotino. E poi lei non c’era, al tempo della fuga. Però la fama era che nonno Luigi (si chiamava Luigi Belingardi, era un conte squattrinato) prima di lasciare Bergamo, avesse gettato i libri nel Serio. Così raccontava nonna Teresita, la quale si chiamava Teresita, perché questo è un nome garibaldino (le sorelle si chiamavano Anita e Rosita). Dove il nonno garibaldino fosse partito non riesco a ricordare, forse mia nonna si è dimenticata di dirmelo: però, facendo conto di certi riferimenti, che trascuro di dire, è molto probabile che abbia partecipato all’ultima impresa garibaldina, con i volontari nell’“esercito dei Vosgi”, in difesa dei cugini francesi invasi dai boche, cioè dai prussiani. Se le cose stanno così, sono doppiamente orgoglioso.

 [Aggiornamento del 29 dicembre - Nella mia stima, qui sopra, mi sono sbagliato di quattro anni. In realtà mio bisnonno combatté nella Terza guerra d’Indipendenza italiana (1866), nel tentativo, riuscito, di forzare le difese austriache e invadere il Trentino. Sono riuscito a scovare queste notizie nel libro: Ottone Brentari, Il secondo battaglione Bersaglieri volontari di Garibaldi nella campagna del 1866, Tip. Agnelli, Milano 1908. Vedi a p. 305: «Belingardi Luigi di Francesco, bersagliere della quarta compagnia, arruolato dopo il 1° luglio 1866. Vive a Bergamo»[1].]

    Diceva mia nonna che, nei momenti in cui si sentiva triste, nonno Luigi si rifugiava in un suo studiolo, contenente i ricordi garibaldini, e che quando avveniva che parlasse di Garibaldi gli occhi gli si facevano lucidi (evidentemente, al contrario della figlia, era un sentimentale). Immagino che provenisse da quello studiolo il bassorilievo di Mazzini che mia nonna aveva portato nella nuova casa, da sposata: si trovava nella biblioteca, dalla quale poi, dopo un certo numero di traslochi, è finito a casa mia, nel mio antro di Trezzo sull’Adda. C’era anche un bassorilievo di Garibaldi, ma non so che fine abbia fatto.

     Sempre in quella biblioteca, che prendeva luce da una porta finestra affacciata a un giardino che nei miei ricordi appare lussureggiante, e invece doveva essere un normale giardino, con un po’ di fiori (ricordo le rose, le ortensie rosa e turchese) e qualche albero da frutto, si conservava, nella scaffalatura inferiore, un libro di grande formato. Scritto dalla moglie di un garibaldino, Jessie White Mario, il libro s’intitolava Garibaldi e i suoi tempi: una bella edizione ottocentesca, con incisioni a piena pagina. A margine portava le note di nonno Luigi. Ne ricordo una, più o meno di questo tenore: «Mentre leggo con rinnovata commozione le imprese dell’uomo… nasce qui accanto mio figlio Mario…». Era l’ultimogenito. (Non so che fine abbia fatto il libro di mio bisnonno, teoricamente dovrebbe essere conservato in una biblioteca comunale, alla quale era stato regalato. A ogni buon conto, ne ho procurato un nuovo esemplare, in una libreria antiquaria.)  Ma qui mi fermo, mi limito a presentare un’immagine di nonno Luigi, tratta da un dagherrotipo che conservo al riparo dalla luce che facilmente lo rovinerebbe. Per questo è montato in una tavoletta, incernierata su un’altra uguale, così da sembrare un libretto, elegantemente rilegato in pelle: il libretto viene aperto soltanto per guardare l’immagine, poi si chiude.

    Adesso spiego perché l’inno di Mameli non mi piace. Prima però leggiamo le parole dell’inno di Mameli.

 

Il testo dell’Inno di Mameli

Trascrivo qui di seguito il testo dell’Inno di Mameli o Il Canto degli Italiani, scritto da Goffredo Mameli nell’autunno del 1847 (tratto da: I Poeti minori dell'Ottocento, a c. di Ettore Janni, Rizzoli, Milano 1955). Il testo fu posto in musica da Michele Novaro. Per approfondimenti si veda la pagina dedicata all’Inno di Mameli nel sito della Presidenza delle Repubblica italiana, qui.

 

1. Fratelli d’Italia,

L’Italia s’è desta;

Dell’elmo di Scipio

S’è cinta la testa. 

Dov’è la Vittoria? 

Le porga la chioma;

Ché schiava di Roma

Iddio la creò.

 

Stringiamoci a coorte, 

siam pronti alla morte; 

l’Italia chiamò.

 

2. Noi siamo da secoli

Calpesti, derisi,

Perché non siam popolo,

Perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica

Bandiera, una speme;

Di fonderci insieme

Già l’ora suonò.

Stringiamoci a coorte, 

siam pronti alla morte; 

l’Italia chiamò.

 

3. Uniamoci, amiamoci;

L’unione e l’amore

Rivelano ai popoli

Le vie del Signore. 

Giuriamo far libero

Il suolo natio:

Uniti, per Dio,

Chi vincer ci può?

 

Stringiamoci a coorte, 

siam pronti alla morte; 

l’Italia chiamò.

 

4. Dall’Alpe a Sicilia, 

Dovunque è Legnano; 

Ogn’uom di Ferruccio 

Ha il core e la mano; 

I bimbi d’Italia

Si chiaman Balilla; 

Il suon d’ogni squilla 

I Vespri suonò.

 

 

Stringiamoci a coorte, 

siam pronti alla morte; 

l’Italia chiamò.

 

5. Son giunchi che piegano 

Le spade vendute;

Già l’Aquila d’Austria

Le penne ha perdute.

Il sangue d’Italia

E il sangue Polacco

Bevé col Cosacco,

Ma il cor le bruciò.

 

Stringiamoci a coorte, 

siam pronti alla morte; 

l’Italia chiamò.

 

  

Perché l’Inno di Mameli non ci piace

Vi ricordate Luca Cupiello, protagonista di Natale in casa Cupiello, opera teatrale di Eduardo De Filippo? Il padre Luca, appassionato di presepi, ne costruisce uno. Ma non gli basta, continua a domandare al figlio Nennillo: “Te piace ’o presebbio?”. E lui, indifferente: “Non mi piace”.

    Qualcosa del genere succedeva a me, con l’Inno di Mameli. Più lo sentivo, meno mi piaceva. Non solo perché ero un ragazzo di sinistra, e a quel tempo l’Inno piaceva pochissimo, soprattutto da quelle parte. Oggi è diverso, oggi a sinistra (alla c.d. sinistra) l’Inno piace, ma in funzione antileghista. Ciampi, quello che va in visita alla Banca d’Italia, “sente il nume” di Mammona e si commuove (dico cose vere, hypotheses non fingo) ne aveva fatto un tormentone.

     Adesso ho capito perché non mi piaceva. Sì, certo la musica, questa marcetta… Ma avete mai sentito God save the Queen (fare clic sul collegamento ipertestuale)? O anche Conservet Deus su Re, l’inno del Regno di Sardegna? (Si noti la forma “conservet”: un congiuntivo esortativo, proprio come in latino.) Ma il punto importante è che la musica mi rimandava alle parole. Erano le parole che mi davano fastidio. Allora non lo sapevo, adesso so perché. Detesto la retorica.

 

Contro la retorica

Ho cominciato a studiare un po’ di retorica al tempo dei sermoni di Oscar Luigi Scalfaro. Non lo sopportavo. Quest’uomo che assume volontariamente la carica di vicepresidente del Tribunale di Novara e in qualità di magistrato di una Corte d’Assise straordinaria sostiene la pubblica accusa contro Enrico Vezzalini e ne ottiene la condanna a morte per reati di guerra (settembre 1945), avrà anche avuto ragione a fare quel che ha fatto. Ma poi perché ci fa sapere che ha pianto, a causa della condanna a morte? Non faceva prima a dare le dimissioni da magistrato, prima di chiedere la condanna? Oppure avrebbe potuto far di tutto per evitarla, quella condanna, come fa il giudice del romanzo di Sciascia, A porte aperte. Scalfaro è lo stesso uomo che un giorno (siamo nel 1950) vede in un ristorante una signora scandalosamente scollata: si turba, le si avvicina, le assesta uno schiaffo. Questi è lo stesso Scalfaro che s’impanca a nostro maestro di vita? Quello che ci parla di etica? Ma quando mai!

     Come potevo smontare scientificamente i suoi sermoni? Studiando la retorica, appunto. Lessi tutta la Rhetorica ad Herennium, poi altri libri ancora. Feci i primi progressi esercitandomi sui sermoni di Scalfaro dei quali annotavo tutti i paralogismi, tutte le fallacie logiche, tutti i lenocini retorici.

 

Breve analisi delle ultime due strofe dell’Inno di Mameli

Per non cadere nell’errore di essere a mia volta retorico, mi esprimo per punti, con espressione asciutta il più possibile. Questa breve analisi si riferisce, in particolare, alle ultime due strofe del testo sopra riportato.

·   È un inno cattivo, ridondante di sentimenti antitedeschi (si ricorda Legnano, ma si dimentica che Lodi fu distrutta dai Milanesi, e ricostruita – su un colle vicino – dal Barbarossa).

·   Si nomina Francesco Ferrucci trafitto da Maramaldo, al seguito di Carlo v, ma si dimentica che il Ferrucci aveva violato la legge che impone il rispetto per gli ambasciatori (aveva fatto impiccare un messaggero di Maramaldo).

·   Si parla di Balilla, ma si dimentica che Balilla resistette a un contingente di Austro-piemontesi, dunque se noi siamo con Balilla, siamo contro i piemontesi.

·     Non mancano i sentimenti antifrancesi (vedi il riferimento ai Vespri siciliani).

·    Si stigmatizza l’uso dei mercenari (le “spade vendute”), come se il mestiere delle armi non fosse stato a quel tempo, come oggi il “made in Italy”, una voce importantissima nella bilancia dei pagamenti:  i mercenari non erano mica tutti lanzichenecchi.

·    Conclude l’inno un saggio di retorica dozzinale contro l’aquila bicipite austriaca, che si vorrebbe spennacchiata, e per giunta assetata di sangue.

·   Infine, con conoscenza approssimativa della storia, si identifica la Santa Russia con le popolazioni nomadi tartare, le loro discendenze e rimescolamenti etnici (il “Cosacco”).

 

Insomma quest’inno è tutto un livoroso guazzabuglio di sentimenti in contraddizione con la civiltà europea. Mentre irride alle altre nazioni europee, non spende neanche una parolina in favore della civiltà italiana: c’è un elogio dell’imperialismo romano (che è un’altra cosa), ma dov’è la corte di Federico II a Palermo, dove la Firenze di Cosimo de’ Medici, dove l’illuminato governo della Serenissima?

    L’ho detto, sono orgoglioso di essere italiano, ma anche di essere dotato di senno. Quest’inno non aggiunge niente al mio orgoglio di italiano, ma offende la mia intelligenza, come essere razionale.

 

Ma il Canto degli Italiani è veramente del Mameli?

Per giunta c’è il sospetto che sia un inno scopiazzato, tal quale, dal giovine Goffredo Mameli, a partire da un componimento che un suo precettore al collegio di Carcare, nell’entroterra savonese, gli aveva dato da leggere. Era questi un padre scolopio (padre Canata), seguace di Gioberti, devoto di Pio ix. Il giovane Mameli, dopo aver trascritto il testo dello scolopio, lo inviò a Michele Novaro, che lo mise in musica quasi di getto. «Padre Canata si tenne dentro il cuore quel segreto per “generosità”, per non offuscare l'immagine di colui che nel giro di pochi anni era diventato un eroe del Risorgimento (morì a 22 anni)». Si veda in proposito l’articolo del Corriere della Sera riportato qui sotto.

     Leggiamo sui giornali che un pronipote di Mameli afferma, invece, che il carme è opera proprio del suo avo: Ma lui come fa a saperlo? Conta di più il suo orgoglio di pronipote, o l’analisi critica di Aldo A. Mola nel volume Storia della monarchia in Italia, Bompiani, Milano 2002, pp. 367-369? C’è da dire che a dimostrazione del fatto che l’inno sia stato composto dal giovane Mameli, il pronipote poteva portare un argomento, uno solo, ma non l’ha portato: è talmente poco poetico, quest’inno, che si dubita che sia stato composto dal precettore di un collegio! Però è pur vero che il nostro ministro Bondi è un poeta. E che lo è anche Vendola.

 

L’articolo del Corriere della Sera

Ma che Mameli, Fratelli d’Italia è l’inno di Canata

 

Ecco l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 24 dicembre 2002. È singolare che, mentre l’articolo è rintracciabile in diversi siti Internet, per esempio qui, sia tuttavia scomparso dall’Archivio del Corriere della sera (non lo si trova né con il motore di ricerca generalizzato, né spulciando tutti gli articoli raccolti nell’Archivio cronologico: sono sicuro di quel che dico, e ho una certa pratica di queste cose). Ad ogni buon conto, conservo un ritaglio dell’articolo, che ho provveduto a scandire (“scandire” e non “scannerizzare”!), per la delizia di coloro che hanno pensato bene di farlo scomparire dall’Archivio (dove pure si trovava): si veda l’immagine qui sotto.

     Val la pena leggere anche questa pagina, tratta dal sito Essere liberi, che ci aiuta a capire meglio l’articolo, dove figura un errore di trascrizione. Le parole con cui padre Canata si lamentava del plagio sono queste: «Meditai robusto un canto / ma venali menestrelli / mi rapian dell’arpa il vanto...» (l’espressione si rapina dell’arpe un vanto”, come si legge nell’articolo, è poco congruente con il soggetto della proposizione, ed è inutile lectio difficilior).

 

L’inno di Mameli non è di Mameli, ma di un padre scolopio. Il giovane Goffredo ricopiò in bella (senza nemmeno una cancellatura, ma con l’aggiunta di una strofa con un macroscopico errore), un testo scritto nel 1846 da padre Atanasio Canata e lo inviò nel novembre 1847 all’amico Michele Novaro che lo mise in musica quasi di getto, secondo la testimonianza di Carlo Alberto Barrili. Già in dicembre l’inno fu eseguito davanti a Carlo Alberto. Padre Canata si tenne dentro il cuore quel segreto per «generosità», per non offuscare l’immagine di colui che nel giro di pochi anni era diventato un eroe del Risorgimento, un’icona dell’indipendenza italiana, sia per la precocissima morte, a 22 anni, sia per la fulminea diffusione del «canto degli italiani». Ma più tardi, prima di morire, padre Canata rivendicò indirettamente, ma con precisa indicazione, la paternità di quel testo che gli era stato «rubato». Scrisse infatti nell’ode Il vate: «A destar quell’alme imbelli / meditò robusto un canto; / ma venali menestrelli / si rapina dell’arpe un vanto: / sulla sorte dei fratelli / non profuse allor che pianto, / e, aspettando, nel suo core / si rinchiuse il pio Cantore». Questo testo fu composto nel 1849, ma pubblicato nel volume Versi solo nel 1889.

     La grave accusa a Goffredo Mameli viene formulata dallo storico Aldo A. Mola nel volume Storia della monarchia in Italia, mandato in libreria da Bompiani (940 pagine, 30 euro). Nelle pagine 367-369 lo studioso espone una serie di dati per dimostrare la sua tesi. Poiché non esiste l’originale di padre Canata, Aldo A. Mola ha lavorato su molti indizi.

     «Prima di tutto la datazione – dice Mola –. Non è sufficiente la data, novembre 1847, apposta da Mameli alla trascrizione dell’in no, per stabilire quando il testo fu composto. L’inno rimanda a eventi del 1846. Sottolinea l’adesione al “primato degli italiani” di Gioberti e all’unione dietro un’unica bandiera. La citazione di Balilla si collega al convegno degli scienziati a Genova dal 15 al 29 settembre 1846: da quel momento il “balilla” venne evocato più volte come simbolo di rivolta. Ma ci sono molti altri particolari».

     Mameli nel settembre 1846 fu condotto dal padre scolopio Raffaele Ameri nel collegio di Carcare (Savona). Aveva 19 anni e aveva già precedenti insurrezionali. La polizia piemontese lo cercava: proprio per questo la famiglia decise di mandarlo a «riflettere» nel collegio dove già aveva studiato il fratello Giovanni Battista. C’è la testimonianza di padre Ameri. Lo stesso Mameli invia una lettera all’avvocato Giuseppe Canale, in cui mostra di padroneggiare poco la grammatica e la sintassi. Commenta Mola: «Lo scrittore non può aver scritto l’inno Fratelli d’Italia, il testo è troppo complesso, elaborato e pieno di riferimenti storici».

     Padre Canata era un patriota, sostenitore dell’unità, ma devoto di Gioberti, Rosmini e Pio IX. In una poesia anticipò «la patria chiamava severa», come più tardi l’«Italia chiamò» del Canto degli italiani. E quando l’inno divenne famoso, padre Canata non protestò, per non sbugiardare l’eroe. Ma per le orecchie intelligenti lasciò scritto il suo risentimento per il «menestrello» ladro. «E non solo; nella Gazzetta letterata padre Canata vibrò un’altra staffilata – aggiunge Mola –. Scrisse infatti: “E scrittore sei tu? Ciò non ti quadra... / Una gazza sei tu garrula e ladra”. Ulisse Borzino, quando consegnò il testo al musicista Novaro gli disse: “To’, te lo manda Goffredo” e non “È di Goffredo”. C’è una bella differenza!».

    «Nell’inno non c’è alcun accenno ai Savoia, a Carlo Alberto, al Papa. Il riferimento è solo all’Italia che “chiamò” – precisa Mola –. Il testo è quindi frutto di una mente sottile, quale Mameli non dimostrò mai in tutte le poesie lasciate». Ma è così importante sapere che l’inno non è di Mameli ma di padre Canata? «Sì – risponde Mola –. Se autore è padre Canata, come è, si comprende meglio come si formò lo spirito unitario italiano verso l’indipendenza. Al Risorgimento parteciparono tutte le forze, anche quelle cattoliche. Proprio Fratelli d’Italia lo dimostra nei versi “uniti per Dio / chi vincer ci può?».

Ottavio Rossani

 

 

 

L’affissione dell’Inno di Mameli obbligatoria nelle scuole italiane?

Per iniziativa del Pdl e in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stata presentata in Parlamento, il 17 marzo 2010, la  proposta di legge n. 3331 “Affissione dell’inno Il canto degli italiani, di Goffredo Mameli, negli istituti scolastici primari e secondari di primo grado”.  Il testo del disegno di legge può essere letto qui, la proposta deve ancora essere approvata dalla Camera.

    I professori della scuola italiana, così gelosi delle loro prerogative, come la prenderanno? Ah, dimenticavo: per l’Inno di Mameli si potrebbe fare eccezione, in chiave anti-leghista, come si è ricordato sopra. Io però, che ho militato a sinistra, quando la sinistra era dalla parte dei lavoratori, e che ho memoria elefantina, ricordo benissimo che l’Inno di Mameli non godeva di buona fama, a sinistra. Notoriamente, i professori della scuola italiana militano a sinistra (a proposito: capisco le schiappe, capisco meno i professori che valgono, i quali farebbero bene a prendere atto del fatto che chi è veramente di sinistra deve votare contro questa sinistra, come d’altronde, ogni tanto, si legge sul Fatto quotidiano: viva la sincerità!)

     Nel resistere a questa disposizione da Minculpop (per il momento soltanto un’intenzione), i professori delle scuole italiane potrebbero ricordare che l’Inno di Mameli non piacque a Mazzini, non piacque a Cattaneo, «sembrò enfatico anche a ferventi patrioti» (si veda questo articolo sulla Repubblica, 28 maggio 2002), non piacque nemmeno al maestro Muti, che si rifiutò d’intonarlo all’inaugurazione del Teatro alla Scala, nel 1999, provocando la reazione sdegnata del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi (La Repubblica, ibid.). Poi però Muti ha mutato parere parere, tanto da diventare – sembra – uno dei principali supporter del contestato inno.

 

L’Inno di Mameli strumentalizzato a fini di politichetta locale

La  proposta di legge n. 3331 è una proposta di legge nazionale: che cosa c’entrano i politici locali, gli amministratori comunali? Niente, appunto. Va bene, sarà anche così, ma se un amministratore comunale vuol mettersi in mostra, qualcosa dovrà pur fare, o no? Ed ecco la trovata: c’è qualcuno che a livello istituzionale, a parte i leghisti, abbia il coraggio di dire che l’Inno di Mameli con gli piace? Generalmente no. Bene, il gioco è fatto: io presento in Comune una mozione “a sostegno della mozione nazionale”, che poi non si sa bene che cosa significhi questo sostegno locale. Ma che importa? Voi, cari colleghi amministratori, siete con le spalle al muro e, se appena appena nicchiate, io ho la mia brava visibilità. Anzi, speriamo che i leghisti facciano decise rimostranze, possibilmente sboccate: più se ne parla, meglio è (per me).

     Se qualcuno pensa che noi si stia esagerando, nel descrivere in termini così riduttivi (e ridicoli) la nobile arte esercitata dagli amministratori locali del Bel paese, ecco la controprova. Siamo a Curno, a 6,5 km dal centro di Bergamo, praticamente un borgo di Bergamo. Curno conta 8.000 abitanti, che non sarebbero neanche pochi, ma, nelle intenzioni della classe politica locale, deve essere gestito con criteri rigorosamente paesani. Infatti, il giorno  22 settembre Curno si appresta a dare il suo determinante e paesano sostegno alla proposta di legge nazionale n. 3331. Roba da far tremare le vene e i polsi (o da far ridere i polli?). Stupendo, i piccoli politici di Curno giocano a fare la politica nazionale. Perché non anche la politica internazionale? Era quel che faceva La Pira, ai tempi in cui era sindaco cattolicissimo di Firenze. Con la differenza, però, che Firenze fu una potenza (finanziaria) mondiale, e che La Pira era un santo (viveva in una stanzuccia disadorna, con un lettuccio e un canterano, non possedeva villoni, neanche villette con in nanetti di gesso, inoltre i macchinoni  e i Suv – se ci fossero stati – gli avrebbero fatto schifo). Curno invece? E i protagonisti della politichetta curnense?

     A mo’ di provocazione intellettuale per i signori politici, propongo l’ascolto dell’Inno a Oberdan (ne trovate le parole qui). Ricordo che Oberdan aveva organizzato nel 1882 un attentato contro l’imperatore Francesco Giuseppe, in visita a Trieste. Le intenzioni dell’Oberdan vennero tuttavia intercettate dalla polizia austriaca, l’agguato non fu mai messo a segno e Oberdan fu condannato a morte. Milano ha dedicato all’irredentista triestino una piazza, dietro Porta Venezia. Treviglio gli ha dedicato un Istituto tecnico commerciale.

 

 

Tema (per i consiglieri del Comune di Curno): Confrontate le parole dell’Inno a Oberdan con quelle dell’Inno di Mameli e svolgete le vostre considerazioni in relazione al contesto storico-politico, sia quello all’epoca di composizione dei due inni, sia quello attuale.

 

P.S. per Pedretti - Egregio consigliere comunale / regionale, da un po’ di tempo lei ha preso l’abitudine di attingere da Aristide – senza chiedere permesso e senza citare la fonte – espressioni linguistiche e qualche concetto mal digerito (da lei, ovviamente). Lo fa nel blog dell’Udc, immagino che lo faccia anche altrove, per esempio per fare bella figura con gli amici peones nel Consiglio dei Lombardi. Se per caso questo articolo le è piaciuto, in tutto o in parte, è pregato di non saccheggiarlo e di non far passare il frutto della sua rapina per farina del suo sacco. Se proprio vuole attingere, almeno citi la fonte. Non è obbligato a dire che il testo copiato è nato dalla penna (una Rapidograph) di Aristide, non ho smanie di visibilità. Sarà sufficiente citare Testitrahus.

 

 

 

[1] Ricordo brevemente i fatti salienti di quella guerra. Dopo la sconfitta delle truppe italiane a Custoza, presso Verona (24 giugno 1866), dopo la disfatta navale a Lissa, al largo della costa dalmata (20 luglio) e dopo la vittoria di Garibaldi a Bezzecca, nel Trentino (21 luglio), l’Italia prepara l’armistizio. Perciò La Marmora intima a Garibaldi di sgombrare il Trentino entro 24 ore. Garibaldi risponde il 9 agosto con il celebre telegramma: «Obbedisco» (vedi qui accanto). Si noti che la nostra Terza guerra d’indipendenza rappresenta il fronte meridionale di una guerra più vasta, la Guerra austro-prussiana che vede schierato l’Impero d’Austria contro il Regno di Prussia, che conta tra gli alleati il Regno d’Italia. La strepitosa vittoria prussiana a Sadowa segna le sorti della guerra austro-prussiana e induce l’Austria a sottoscrivere l’armistizio con la Prussia, il 26 luglio. L’armistizio con l’Italia viene dopo, il 12 agosto. Peraltro l’Impero d’Austria, che aveva riportato l’importante vittoria terrestre di Custoza e a Lissa aveva sgominato la flotta comandata dall’ammiraglio Persano, non si considerava sconfitta dal Regno d’Italia, che ottenne Mantova e il Veneto solo in maniera indiretta. Le province perdute, infatti, passarono alla Francia, che ne fece dono all’Italia. Il Trentino, dove Garibaldi era stato vittorioso, rimane all’Austria.