12 febbraio 2011
Ricordo di Aristide (quello vero)
Aristide Murru, professore di latino e greco (a sinistra) e Renato Soru, fondatore di Tiscali, già presidente della Regione sarda (al centro), alla mostra fotografica Nimbus, dedicata ad Andreas Bentzon.
L’ultima volta che vidi Aristide, ci siamo parlati quindici minuti. Avrei voluto trattenermi con lui sui massimi sistemi, ma non mi sentivo maturo, non abbastanza, perciò mi tenni sulle generali. Mi ripromisi tuttavia di andarlo a cercare in seguito, quando la “conoscenza intima ed esteriore della natura” (Lucrezio: naturae species ratioque) avesse finalmente scacciato le tenebre che mi facevano velo. Insomma, quando fossi divenuto sapiente.
Al liceo lo chiamavamo Aristide, e basta. Avremmo dovuto chiamarlo prof. Aristide Murru, ma credo che non gli dispiacesse essere chiamato così: era un bel nome, il suo, oltre tutto gli calzava a pennello, considerato che era professore di latino e greco. Non alzava mai la voce e noi non gli davamo ragione di alzarla (con gli altri professori eravamo meno benevoli). Se proprio doveva punirci, usava l’ironia. Nutrivamo per lui un gran rispetto.
Una biblioteca soavemente odorosa
L’incontrai alla biblioteca dell’Università. A dire il vero, mi aveva portato lì non la volontà di trovare un libro, ma la ricerca del genius loci, casomai vi albergasse ancora. L’odore di libri antichi – anzi, il profumo – si era fatto meno intenso, rispetto al tempo in cui vi leggevo La deriva dei continenti, un libro pubblicato per i tipi della Boringhieri, scritto dal Wegener, dal quale la teoria prende il nome. Avveniva al tempo del liceo, quando preparavo una relazione commissionata dalla professoressa di Scienze, detta nonna Abelarda. Perciò ogni pomeriggio m’inerpicavano per le vie del Castello, così si chiama la parte superiore di Cagliari. Era un vero piacere. Il profumo dei libri allora si percepiva non solo nella biblioteca, ma anche in via dell’Università.
Al tempo dell’ultimo incontro con Aristide frequentavo il terzo anno di Università. Era il mese di aprile ed ero tornato a Cagliari per le vacanze di Pasqua. In biblioteca chiesi lo stesso libro di allora, quello del Wegener. Lo sfogliavo seduto a un brutto tavolo di metallo, anzi schifoso, un tavolo aziendale della serie Synthesis dell’Olivetti (ma che fine avevano fatto i bei tavoli di legno di qualche anno prima?), quando mi sento chiamare per nome. Era Aristide, impossibile non riconoscerlo: un aspetto così nobile, come fai a dimenticarlo? Aveva gli occhi mobili, come sempre: quando parlava era come se osservasse, sospese nell’aria, le forme dei concetti. La stempiatura sembrava fatta apposta per essere massaggiata dai polpastrelli, come quando si sforzava di mettere a fuoco qualcosa di complesso o quando si concentrava per trovare l’espressione giusta. Invece, se proprio doveva comunicarci un sentimento, faceva il gesto di portarsi la mano al cuore, con le dita arcuate, come per darsi coraggio, o come per dire: scusatemi, non ce la faccio a essere tutto razionale, come pure vorrei. Si veda nel filmato qui sotto (Appendice 3) il suo commosso e misurato ricordo dell’amico Andreas Bentzon.
Biblioteca dell’Università di Cagliari: “Sala settecentesca”.
Se, per parte mia, ero andato in biblioteca nella speranza d’incontrare il genius loci, Aristide vi si era recato per uno scrupolo filologico. Doveva consultare il testo di un autore latino, pubblicato in un’edizione del Settecento, che mi mostrò aperta. Il testo corrente era riportato in alto, in piena giustezza (come si dice) distribuito su una striscia alta non più di quattro centimetri. Sotto il testo, in due colonne, un commento rigorosamente in latino, in caratteri minuscoli. – Anzi – mi disse – prova anche tu a darci un’occhiata. Tu che cosa capisci? – Ma come, un professore di latino che chiede a me? Eppure ebbi la sfrontatezza di leggere il brano nella striscia superiore, dissi quel che avevo capito. Non ricordo se la mia interpretazione sia stata preceduta da espressioni idonee a sminuirne l’importanza e l’attendibilità, come pure avrei dovuto fare. Spero di averlo fatto. Quindi ci salutammo con parole misurate, con un filo di voce, considerato che eravamo in biblioteca.
Come dicevo, mi sarebbe piaciuto intrattenermi con Aristide. Era stato il mio mito, ma non potevo dirglielo. Se nel frattempo fossi riuscito a diventare sapiente, o almeno filosofo, almeno un po’, allora sì, allora avrei preso il coraggio di trattenerlo. Purtroppo non avevo storie degne da raccontargli; inoltre ero consapevole del fatto che, quando cercavo di cogliere l’essenza di certi problemi di un certo spessore, per risolverli ero costretto a impormi una disciplina sovrumana, o a cercare le “condizioni al contorno favorevoli”, segno che non ero riuscito a temprare il carattere come mi ero proposto anni prima. Mi ripromisi di farmi vivo con Aristide quando avessi raggiunto quella pienezza intellettuale e di vita che ancora speravo di raggiungere. Ed è così che non l’ho più visto.
Dibattito sull’obiezione di coscienza
Era disponibile e democratico, Aristide. Ma si è sempre guardato dal dirci: “Io sono democratico”. Inconcepibile, per uno come lui: questa iattanza, infatti, è roba da cialtroni, decisamente. Ricordo un giorno in cui mancò il professore che avrebbe dovuto tenere lezione dopo l’ora di greco, così Aristide fu con noi un’ora in più. Però non ne profittò per farci un supplemento di lezione. Ci domandò invece se avessimo qualcosa da chiedergli. Un invito al dialogo, prima che questa parola assumesse significati impropri (ma con lui, che era professore di greco, certe acrobazie linguistiche non erano possibili: neanche con noi, del resto). Io una proposta l’avevo, non mi sembrava vero di poterla presentare.
Il fatto è che si parlava proprio allora di un film uscito in Francia, che in Italia fu subito bloccato dalla censura democristiana: lo si sarebbe visto soltanto vent’anni dopo. Il film, di Claude Autant-Lara, s’intitolava Non uccidere, trattava il tema dell’obiezione di coscienza. La quale a quel tempo era un reato: dunque il film costituiva apologia di reato. Di qui seguiva, logicamente, la censura. Presero posizione contro la censura gl’intellettuali che facevano capo alla rivista Il mondo, il mitico “settimanale di politica e di letteratura” fondato da Mario Pannunzio, del quale Eugenio Scalfari insiste a dirsi discepolo. Si dà il caso che io leggessi Il mondo, anzi proprio quel giorno ne avevo una copia in cartella, in quel numero c’era un paginone intero dedicato al film contestato e represso.
Ora, Il mondo non era un giornaletto per sciacquette, o anche soltanto bonariamente sovversivo, da tenere nascosto, come mi capitava di fare con Seme anarchico, che compravo nell’unica edicola di Cagliari dove fosse in vendita, presso un edicolante che aveva imposto alla figlia il nome di Marxina. Sul Mondo scrivevano fior di letterati e studiosi, meridionali che vivevano a Roma e credevano di essere inglesi. Insomma, era un giornale di borghesi, attraversati da una vena di radicalismo (infatti, il Partito radicale nascerà da una costola del Mondo): borghesi non “alle vongole”, come pare dicesse Pannunzio, ma pur sempre borghesi. Perciò mi feci coraggio, tirai fuori il settimanale, che era in formato di lenzuolo, proposi che si leggesse quell’articolo sulla censura cinematografica. Avevamo un ottimo pretesto culturale, considerato il profilo adeguatamente elevato del Mondo, inoltre gl’intellettuali che vi scrivevano erano tutti, con qualche rara eccezione, di scuola idealistica crociana. Allora negli ambienti che contano si dicevano tutti crociani (ma almeno avevano letto Croce), come in seguito tutti si sarebbero detti marxisti (avendo letto ben poco di Marx) e oggi si dicono tutti liberali, anzi liberal (e non si capisce perché). Anche il preside aveva voluto farci sapere di essere crociano, nel corso di uno sproloquio sulla coincidenza di sostanza e forma.
Aristide accettò la proposta, i compagni pure. Leggemmo l’articolo, seguì il dibattito. Aristide volle sentire il parere di tutti. Non ci disse quale fosse il suo sentire: già rischiava dandoci la parola su quell’argomento, non era il caso che si compromettesse ancor più. Lo capivo anch’io, che pure in questo genere di cose ero abbastanza avventato. Si limitò a fare alcune obiezioni di metodo, mantenendo il tono del dibattito a un livello decorosamente alto, come si conviene in un liceo.
Anni dopo avrei saputo del mitico prof. Monti, del Liceo d’Azeglio di Torino, il quale formò una generazione di antifascisti senza mai dire una parola contro il fascismo. Credo che Aristide si sia comportato in maniera analoga, in un’Italia diversa ma non migliore, in quell’Italia democristiana che oggi alcuni, non so perché, sembrano rimpiangere. D’altra parte, le opinioni di Aristide erano note: era stato visto una domenica in un corteo per la pace, con la moglie e il figlioletto, del quale spingeva la carrozzina.
Ricordo che, quando venne il mio turno di parlare, affermai che in trincea non avrei sparato al nemico, proprio perché mi rifiuto di considerarlo nemico. Aristide, giustamente, disse che non ci credeva. In effetti, oggi, sparerei. Ma, quando si è giovani, la voglia di fare gli eroi, ancorché stupida, è sincera. A parte il mio caso, che non ha alcuna importanza, è vero che ancora qualche decennio fa si sognava di essere eroi, e uomini d’onore, e non tronisti o addetti alle pubbliche relazioni.
Quella discussione, in un liceo, sull’obiezione di coscienza può sembrare acqua fresca, oggi. Grazie tante: oggi essere di sinistra – negli ambienti cosiddetti intellettuali, e non soltanto in quelli – è condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per aspirare a un livello minimo di comodità. Ma allora era tutto il contrario. Aristide aveva avuto coraggio, non c’è che dire. Tanto più che il preside, soprannominato Ercolino, era cattivissimo.
Il preside, detto Ercolino
Il liceo era un ex collegio dei gesuiti: appena varcato il portone, si attraversava un ambiente fitto di pilastri e colonne, voltato a crociera. Quindi si svoltava a sinistra e si prendeva per uno ampio scalone, che portava al piano nobile: qui si trovavano gli uffici di presidenza e del personale amministrativo, di qui si accedeva all’aula ad anfiteatro per gli esperimenti di fisica (ricordo la macchina di Wimshurst: una meraviglia!). Dal piano nobile si passava ai piani superiori, dove si trovavano le aule scolastiche, salendo per rampe di scale con gradini di marmo a sbalzo, fissati direttamente alla parete, con ringhiere di ferro vibratili. La specialità di Ercolino era materializzarsi all’improvviso in cima allo scalone, ricorrendo chissà a quali trucchi. Alla sua improvvisa apparizione gli studenti ammutolivano, ricomponendosi in schiera bene ordinata. Il preside alzava la mano, era il segno che c’imponeva di fermarci. Regnava allora un silenzio irreale. Ci guardava con feroce espressione ammonitrice, quindi con un altro cenno c’imponeva di riprendere ordinatamente la marcia. Nessuno parlava, si sentivano soltanto lo scalpiccio delle suole allora rigorosamente in cuoio e, in alto, il rumore sordo delle ringhiere che vibravano. L’espressione di Ercolino non dava adito a dubbi su come interpretasse il ruolo istituzionale di preside scolastico: reprimere era il suo mestiere. Se al suo cospetto qualcuno avesse continuato a parlare (come pure sarebbe stato suo diritto), sarebbe incorso nella pena di lesa ercolinità: tre giorni di sospensione e rientro a scuola con accompagnamento di genitore.
Almeno una volta l’anno Ercolino faceva irruzione in classe. Interrompeva d’autorità la lezione, per farci una rampogna con i fiocchi. L’argomento era sempre lo stesso: nostre infrazioni disciplinari. Beh, almeno in un’occasione aveva ragione. Avevamo un professore di religione molto anziano: si chiamava don Desogus, che però noi traducevamo in “don Degli occhi” (analogamente un altro professore dello stesso liceo, di nome Tristano, veniva tradotto come “prof. Culo triste”). Noi lo prendevamo sottogamba, ma questo don Desogus era un uomo di cultura: se ricordo bene, era anche professore di lingua ebraica al Seminario. Peccato che vivesse fuori del mondo. Bene, un giorno un nostro compagno si presentò al sacerdote con espressione afflitta e, a nome della classe, chiese che osservassimo tre minuti di silenzio, essendo morto, il giorno precedente, un noto personaggio del mondo dello spettacolo, tale Belinda Lee. Il pover’uomo, che non sapeva chi fosse costei, accordò i tre minuti. Qualche tempo dopo ne fece parola al preside, il quale, invece, sapeva bene chi fosse quel personaggio. Belinda Lee era l’interprete di film scollacciati, nota e apprezzata “maggiorata fisica”, come si diceva. Appresa la notizia della burla, Ercolino si precipitò in classe per dirci, naturalmente, che eravamo dei delinquenti.
In occasione di queste ricorrenti ramanzine, il professore di turno non solo subiva la violenza dell’irruzione, ma se ne stava impietrito, con gli occhi bassi, appecorato. Alcuni, i più ignobili, facevano cenni di servile approvazione. Aristide no: lui stava zitto, è vero, perché non c’erano margini di libertà praticabile. Ma non teneva il capo chino, anzi se ne stava a fronte alta. Gli occhi erano quelli di sempre, mobili, penetranti. Il portamento dignitoso significava il disprezzo per Ercolino, ne sono sicuro.
Fui io, semmai, che da un certo punto in poi non me la sentii più di ascoltare senza reagire quel fiume di rabide rampogne. Ercolino aveva una memoria di ferro: non so se ricordasse proprio tutti i nostri nomi, certamente aveva ben presenti quelli dei “sovversivi”. Perciò nel corso delle irruzioni ci apostrofava uno per uno, ponendoci domande assurde. Se avessimo risposto, saremmo stati puniti. Per esempio: “Lei, Dessanay, tribuno della plebe, ha qualcosa da replicare?”. Il compagno così apostrofato era figlio del professor Dessanay, noto uomo politico, già professore di mistica fascista nel ventennio, quindi nel dopoguerra comunista, infine – dopo il 1956 – socialista. Gli studenti interpellati se ne stavano con gli occhi bassi, lasciando che Ercolino latrasse a suo piacimento. Era questo il gioco delle parti. Ma quando il preside veniva a me, io rispondevo. Non potendo fare l’eroe in guerra, facevo l’eroe (rischiando molto meno, è evidente) con il preside. Il quale dapprima faceva il democratico, pur schiumando di rabbia per l’impudenza del mio rispondere a una domanda che peraltro lui stesso aveva posto. La discussione non durava più di due o tre minuti. Veniva interrotta da un urlo tremendo: “Basta!”. Contestualmente protendeva il braccio, mostrando il palmo della mano e tre dita in piedi. Nel linguaggio di Ercolino, pollice, indice e medio agitati in faccia allo studente significavano tre giorni di sospensione. Fui regolarmente sospeso dalle lezioni per tre anni di seguito, per tre giorni, in prima, seconda e terza liceo (gli ultimi tre anni del liceo classico).
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Il liceo nel quale Aristide ha insegnato al tempo dei fatti raccontati aveva sede nell’ ex Collegio di Santa Teresa, fondato dai Gesuiti nel 1611. Dopo la soppressione della Compagnia del Gesù, nel 1773, la Casa professa, come anche viene chiamato il Collegio, fu affidata a sacerdoti regolari per l’insegnamento delle Lettere latine. Con la ricostituzione della Compagnia di Gesù, dopo le guerre napoleoniche, e il ritorno dei Gesuiti in Sardegna nel 1834, il Collegio di Santa Teresa fu rifondato come complesso di scuole pubbliche, nella sua antica sede. Nel 1848 Carlo Alberto concesse lo Statuto e promulgò l’espulsione dei Gesuiti dal Regno di Sardegna, i cui beni passarono allo Stato: il Collegio di Santa Teresa divenne Collegio reale, comprendente le scuole elementari, quelle “grammaticali” e il corso di filosofia. Con la riforma Casati nel 1849 il Collegio divenne un Liceo Ginnasio (Liceo Dettori). Agl’inizi del Novecento l’edificio fu sopraelevato per accogliere nuove aule: lo vediamo nella foto a destra. Quindi fu sede del liceo Siotto-Pintor, al tempo di Aristide, in seguito ospitò il Liceo artistico. Attualmente è sede di mostre e iniziative culturali. A sinistra, la Chiesa di Santa Teresa, oggi Auditorium comunale, annessa al complesso monumentale dell’ex Collegio di Santa Teresa. Il complesso fu edificato grazie al lascito ereditario, a favore dei Gesuiti, di un cavaliere cagliaritano, Juan Francisco Jorgi.
Aristide non commentava questi incidenti nel nostro percorso di formazione, a differenza di qualche altro professore lecchino. Il suo compito ufficialmente era insegnare il latino e il greco, lingua e letteratura. La vita e l’amore per la vita, come pure il senso del decoro, ce l’insegnava con l’esempio, come il prof. Monti del Liceo d’Azeglio di Torino. Semmai si limitava a qualche osservazione, buttata lì come per caso, sul filo dell’ironia. Ma era un’ironia che sapeva tenere a freno. D’altra parte lui non era di Cagliari, era nato a Segariu (< s’ega e s’arriu: valle del fiume) non aveva il gusto per la battuta sferzante, quella che ti lascia in mutande, tipica dei cagliaritani, alla maniera di Nanni Loy e Luigi Pintor, per esempio.
Catarsi artistica in corso di traduzione
L’ultimo anno traducevamo l’Edipo re di Sofocle. L’italiano della traduzione era bizzarro, decisamente goffo. Ma ci eravamo abituati e, in quel contesto, ci sembrava assolutamente normale. Era l’italiano delle traduzioni di servizio, finalizzate a mettere in luce (a noi stessi, prima ancora che al professore) che avevamo compreso sia i nessi grammaticali, sia il significato dell’espressione greca. Per esempio, ecco come suona nel linguaggio di traduzione scolastica il prologo dell’Edipo re: «O figlioli, prole novella di Cadmo, quello d’un tempo, perché mai sedete voi a me su questi seggi, adorni di rami supplichevoli?».
Quand’era Aristide a tradurre l’Edipo re, coglievamo senza difficoltà il miracolo e la bellezza della tragedia greca. Ci conduceva a una concezione nobile della vita. Ovviamente, si soffermava soltanto su alcuni brani, altri sarebbero stati da noi affrontati come compito a casa, anche perché i versi da “preparare” per l’esame erano ottocento. Ricordo il giorno in cui Aristide ci presentò l’“esodo”, l’ultima parte della tragedia, allorché il coro domanda al messo che cosa fosse stato di Giocasta, la madre di Edipo. Il messo riferisce che Giocasta, avendo appreso di essere madre e sposa dello stesso uomo, si è impiccata. Edipo, anch’egli sconvolto dalla notizia dell’incesto, va cercando la moglie-non-moglie, «corpo materno doppiamente fecondo, di Edipo e dei figli di Edipo». Si precipita nella camera nuziale, trova Giocasta appesa, scioglie il nodo, depone il corpo della sventurata, quindi strappa i fermagli d’oro dalle vesti della donna e con quelli colpisce i bulbi degli occhi, i suoi, non una, ma più volte. Conservo nitido il ricordo dei brividi catartici provati nel corso di quella lezione.
I poeti latini e greci secondo Aristide
Con Aristide abbiamo tradotto, dal latino e dal greco, brani di prosa e di poesia. Tuttavia non ho molti ricordi di Aristide che legge, traduce e commenta i brani in prosa. Per la poesia è tutt’altra cosa, mi sembra ancor oggi di vederlo, e di sentirlo, alle prese con i lirici greci e con la poesia latina. Mettendo insieme i ricordi – sempre che non m’inganni – sono arrivato alla conclusione che Aristide nutrisse per la poesia un amore che gli è stato compagno in molte serene veglie notturne. Un amore però che, nelle sue intenzioni, doveva rimanere un segreto. Era consapevole, probabilmente, dell’effetto devastante e volgare che la cattiva poesia (e l’entusiasmo) possono avere sulle anime belle. Non voleva essere frainteso, voleva tutelarci e, secondo me, fece bene.
I lirici greci sono difficili, per la varietà dei dialetti e per le particolarità linguistiche di ciascun autore. Eppure non li ho mai dimenticati, anche se così mi è sembrato. Me ne resi conto quando vidi il film Mediterraneo e sentii recitare quei versi di Alcmane sul silenzio della notte. Li riconobbi subito. E non vi dico la dolcezza, perché neanche a me piacciono svenevolezze e sdilinquimenti.
Al termine di questo spezzone una voce fuori campo recita il Notturno di Alcmane (si veda l’Appendice 1).
Soprattutto, adesso che sono avanti negli anni, di Alcmane apprezzo i versi in cui il poeta, vecchio e stanco, non potendo più prendere parte ai cori e alle danze delle fanciulle, invidia la sorte del cerilo che viene sollevato sulle ali dalle alcioni, perché possa ancora godere della bellezza del mare. Grande è il significato di questa poesia: perché afferma l’importanza della bellezza esteriore (che alcuni sciagurati vorrebbero barattare con una non meglio identificata “bellezza interiore”); perché afferma la bellezza della gioventù; perché mette in luce lo strazio della vecchiaia, che è essa stessa una malattia, tanto più in quanto impedisce l’accesso alla vera bellezza, che è nella gioventù. Questo non toglie che sia assurda e ridicola la pretesa di alcuni vecchi bavosi di ghermire la bellezza della gioventù. Ma per arrivare a questa conclusione non abbiamo bisogno di sentire le prediche dei moralisti dell’ultima ora: molto meglio, molto più intelligente, vedere come l’argomento sia stato trattato, per esempio, da Buñuel, sia in Tristana, sia in Quell’oscuro oggetto del desiderio (fare clic sul collegamento ipertestuale). Nell’Appendice 1 i versi di Alcmane sono presentati nella traduzione di Salvatore Quasimodo che a me non piace, ma la cosa è irrilevante. Ho optato per una traduzione “autorevole”.
Aristide ci spiegò il trasporto di Catullo per Lesbia, grande e assurdo, purtroppo anche naturale. Un amore che brucia e che offende, ma «un’offesa così costringe [l’amante] ad amar di più e a voler bene meno». Aristide ci aveva fatto intravedere le delizie e le insidie della pena d’amore. Poi, come pentito di aver toccato un argomento così delicato, ci distraeva parlandoci del significato di angiportus in quel certo carme di Catullo: angiportus come portus angustus, cioè come vicolo stretto, o come anguiportus, cioè come vicolo sinuoso? Si veda l’Appendice 2 (i carmi sono tradotti con amore e intelligenza da Enzo Mandruzzato). Anche Catullo, come si fa a dimenticarlo? Quando, qualche anno dopo, sentii la canzone Les feuilles mortes cantata da Yves Montand, non sapevo che le parole fossero di Prévert e, apparentemente, mi ero dimenticato di Catullo. Nella canzone mi avevano colpito queste parole: « Mais la vie sépare ceux qui s’aiment / Tout doucement, sans faire de bruit / Et la mer efface sur le sable / Les pas des amants désunis». Sentivo in queste parole come un’aria di famiglia. Infatti: si veda il carme 70 di Catullo.
D’Annunzio
Dunque se anche Catullo mi era entrato nelle midolla, lo devo ad Aristide. Tra i poeti italiani sicuramente apprezzava D’Annunzio. Non lo disse apertamente, ma si capiva. In una sua lezione su Ovidio, Aristide ci disse che il poeta di Sulmona fu per perfezione stilistica superiore a Virgilio. Ovidio sta alla poesia latina – disse – come Cicerone alla prosa, nel senso che Ovidio fu un esempio insuperato, grazie anche alla sua immaginazione sfrenata, pronta a rispondere a tutte le suggestioni, mossa talvolta dal semplice stimolo fonetico di un vocabolo. Per questo rispetto, e per qualche altro ancora, Aristide riteneva che con Ovidio potesse degnamente confrontarsi soltanto un suo conterraneo: D’Annunzio, appunto.
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Dense di celidonie e di spineti le rocce mi si drizzano davanti come uno strano popolo d’atleti pietrificato per virtù d’incanti.
Sotto fremono al vento ampi mirteti selvaggi e gli oleandri fluttuanti, verde plebe di nani; giù pei greti van l’acque della Spendula croscianti.
Sopra, il ciel grigio, eguale. A l’umidore della pioggia un’acredine di effluvi aspra esalano i timi e le mortelle.
Ne la conca verdissima il pastore come fauno di bronzo, su ’l calcare, guarda immobile, avvolto in una pelle. |
Non dimentichiamo che Aristide era un uomo di sinistra e che a sinistra si pretendeva che D’Annunzio fosse un bieco figuro, e che non meno spregevole fosse la sua opera poetica. Conservando la sua ammirazione per il poeta D’Annunzio, Aristide dimostrava di non aver portato il cervello all’ammasso. Un altro indizio dell’ammirazione che portava per D’Annunzio me lo diede un giorno che io, sciocchino studentello progressista, avevo denigrato il poeta dell’Alcyone. Credevo che Aristide non conoscesse la poesia che D’Annunzio aveva scritta sulla Spéndula (significa “cascata”, dal lat. (aqua) pendula), lungo il corso del Rio Coxinas, un fiume a carattere torrentizio che lambisce il paese di Villacidro. È una poesia che non si trova nelle antologie. La conoscevo perché, dopo la stagione del mare, avevo l’abitudine di trascorrere venti giorni a Villacidro con mia mamma e i fratelli, a casa della nonna. La Spéndula era meta delle nostre passeggiate, la poesia era lì, scolpita sulla roccia, a destra della cascata. Una volta c’erano le lettere di bronzo, ma erano state asportate durante la guerra: però la poesia si leggeva ancora. Dissi dunque che quella era una brutta poesia, e che D’Annunzio l’aveva scritta per bisogno di quattrini. Mi guardai dal riferire la leggenda secondo la quale i quattrini sarebbero stati scuciti da mio bisnonno (del resto, non è vero). Aristide mi disse: «Ma chi l’ha detto che è così brutta?». Quindi mi recitò la poesia a memoria. Considerato che è poco conosciuta, forse neanche così spregevole come pensavo, ho ritenuto opportuno trascriverla.
Pastori che leggono Plutarco
Una delle ragioni per cui Aristide amava D’Annunzio, oltre l’indubbia dimensione classicista del poeta, alla quale non poteva essere indifferente un conoscitore della poesia latina e greca, deve essere individuata nel vivo (e autentico) interesse mostrato da D’Annunzio per il mondo pastorale. Un giorno, in uno dei rari momenti in cui si aprì per dirci qualcosa di se stesso, Aristide ci raccontò che in gioventù aveva pensato di diventare un costruttore. Perciò si era iscritto a ingegneria. Sfortunatamente aveva fallito una verifica prevista per il mese di febbraio, una prova scritta a riscontro delle conoscenze di analisi matematica. Proveniva dal liceo classico, gl’inizi erano tutt’altro che facili. Già cinque anni di studi erano tanti, per le possibilità economiche della sua famiglia, sei sarebbero stati troppi. Ci spiegò che suo padre era un pastore. Cambiò immediatamente facoltà. Credo che raccontandoci questo episodio della sua vita, Aristide volesse spingerci, noi borghesi, a non sciupare le occasioni che avevamo a portata di mano. Lui non era borghese, né invidiava i borghesi, né voleva diventare un borghese, non gl’interessava proprio. Gli sarebbe piaciuto costruire, ma questa è un’altra cosa.
Aristide non lo disse, ma nessuno mi toglierà di mente che lui si chiamava così perché il padre, di mestiere pastore, leggeva Plutarco nella solitudine dell’ovile. Gli uomini semplici e generosi di un tempo leggevano Plutarco. Come ben sa chi abbia letto una certa novella di Alphonse Daudet, una delle sue Lettere dal mio mulino. Il mulino è in Provenza, ma la lettera è ambientata in Corsica, s’intitola Il faro delle Sanguinarie. Il guardiano del faro è il vecchio Bartoli, che durante il turno di guardia legge le Vite parallele di Plutarco, stampate in un grosso volume con la copertina in pelle e taglio rosso. Bartoli legge il suo Plutarco, che in verità costituiva tutta la biblioteca delle isole Sanguinarie, all’imbocco del Golfo di Ajaccio, con voce monotona, “salmodiando”. Così immagino che facesse il padre di Aristide, nelle ore morte trascorse nella gran solitudine dell’ovile. Aveva appreso, leggendo la Vita di Aristide, che quello era l’uomo più giusto dei greci, e avrà voluto dare al figlio un nome di buon auspicio.
L’amico Andreas Bentzon
Soltanto l’anno scorso ho saputo che Aristide Murru non è più nel mondo dei vivi, ormai da due anni, credo. Così le ragioni per cui non rivedrò Aristide, contrariamente a quanto mi ero ripromesso quel giorno alla biblioteca dell’Università di Cagliari, sono due: la prima, quella di sempre, è che non mi riterrei comunque degno di presentarmi a lui; la seconda è che lui non c’è più.
Volevo sapere ancora qualcosa di lui. Ho cercato, e ho trovato che era diventato un’autorità nel campo della linguistica sarda, “uno straordinario affabulatore” (così ho letto, né la cosa mi meraviglia) e che ultimamente lavorava a un libro sulla poesia rurale sarda. Ho letto della sua amicizia con Andreas Fridolin Weiss Bentzon: l’aveva accompagnato nei paesi della Trexenda, una zona del settore centro-meridionale della Sardegna, nel corso della raccolta dei materiali di studio sulle launeddas. (Sono strumenti musicali ad ancia battente, a tre canne, suonati con la tecnica della respirazione circolare, con emissione musicale polifonica.) Confrontando le date, ho maturato la convinzione che Aristide fosse amico del Bentzon già al tempo in cui era nostro professore. Però non ci parlò mai né dell’amico, né degli interessi etnomusicologici che andava coltivando. Tenne tutto per sé, anche perché – forse – Ercolino avrebbe disapprovato tali interessi extracurricolari.
Già, Ercolino non avrebbe capito. Questo studente del Corso di Antropologia, jazzista nel jazz club “Montmartre” di Copenaghen, questo appassionato di launeddas, questo Andreas Bentzon che se n’andava in giro per la Sardegna a cavallo di una motocicletta Nimbus (lo vediamo nella foto), che cosa rappresentava per Ercolino? Niente, probabilmente solo un giovinastro da reprimere. Poi però Andreas scrive un’opera in due volumi (The Launeddas. A Sardinian folk music instrument, trad. it. A. F. Weiss Bentzon, Launeddas, Iscandula, Cagliari 2002, due voll., tre Cd-Rom: 119,50 €: vedi qui e qui), diventerà professore di Etnomusicologia a Copenhagen. Morirà a 35 anni. Si veda l’Appendice 3, dove Aristide sostiene che se in Sardegna la tradizione delle launeddas non è morta, lo dobbiamo proprio ad Andreas Bentzon. Infatti, le launeddas sono rinate a nuova vita, in ambito proprio e allargato: si veda (e si senta) Troppo perde ’l tempo, musica composta per una laude di Jacopone da Todi, eseguita su launeddas.
Aristide ci aveva raccontato – solo un cenno, ma questi particolari non mi sfuggivano – di essere andato in Germania, per un breve periodo, al tempo in cui preparava la tesi di laurea, per ragioni di studio. C’era andato in motocicletta. Anche lui.
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Alcmane
Appendice 1
58 - Notturno εὕδουσι δ’ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες πρώονές τε καὶ χαράδραι φῦλά τ’ ἑρπέτ’ ὅσα τρέφει μέλαινα γαῖα θῆρές τ’ ὀρεσκώιοι καὶ γένος μελισσᾶν καὶ κνώδαλ’ ἐν βένθεσσι πορφυρέας ἁλός· εὕδουσι δ’ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων. |
Dormono le cime dei monti e le vallate intorno i declivi e i burroni; dormono i rettili, quanti nella specie la nera terra alleva, le fiere di selva, le varie forme di api, i mostri nel fondo cupo del mare; dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali. |
94 - Il cerilo οὔ μ' ἔτι, παρσενικαὶ μελιγάρυες ἱαρόφωνοι, γυῖα φέρην δύναται· βάλε δὴ βάλε κηρύλος εἴην, ὅς τ' ἐπὶ κύματος ἄνθος ἅμ' ἀλκυόνεσσι ποτήται νηδεὲς ἦτορ ἔχων, ἁλιπόρφυρος ἱαρὸς ὄρνις. |
Non più, fanciulle dal dolce canto, dalla sacra voce, le membra riescono a portarmi; oh, foss’io, fossi un cerilo, che sul fiore dell’onda vola assieme alle alcioni, con cuore fermo, sacro uccello dal cangiante color di mare. |
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Catullo
Appendice 2
58 - Lesbia nei vicoli Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa. illa Lesbia, quam Catullus unam plus quam se atque suos amavit omnes, nunc in quadruviis et angiportis glubit magnanimi Remi nepotes. |
Celio, Lesbia, la mia Lesbia, lei, Lesbia, la sola che Catullo ha amato, più di se stesso ha amato e tutti i suoi, ora per tutti i vicoli e gli incroci scuoia il seme magnanimo di Remo. |
70 - Le parole effimere
Nulli se dicit mulier mea nubere malle quam mihi, non si se Iupiter ipse petat. dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, in vento et rapida scribere oportet aqua. |
Dice la donna mia che mai sposerebbe nessuno, escluso me, neppure se la volesse Giove. Dice così, ma ciò che una donna dice a chi l'ama scrivilo sopra il vento, sopra l'acqua che fugge. |
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Il ricordo di Andreas Bentzon
Appendice 3
Questo stralcio d’intervista ad Aristide è estratto e montato a partire da un documento più ampio, pubblicato nel sito di Iscandula, un’associazione per la conoscenza della cultura musicale sarda. Il documento originale, con sottotitoli in inglese, si trova qui. “Iscandula” in sardo logudorese significa “tegola di legno”, dal lat. scandula, “assicella”.
Traduzione
È difficile a dirsi, quanto sia stato importante il lavoro di Andreas Fridolin Weiss Bentzon in Sardegna. Anzi, bisogna distinguere. C’è un primo lavoro, quello sulle launeddas, che è stato compiuto. Il secondo lavoro che intendeva fare è rimasto soltanto a metà, perché il povero Andreas è morto a trentacinque anni.
Ma vediamo il primo lavoro: bene, senza questo lavoro le launeddas non sarebbero rinate a nuova vita come strumento popolare ancora e nuovamente in uso, nuovamente ascoltato. Soprattutto senza il lavoro di Andreas non sarebbe rinata nell’animo dei suonatori di launeddas la consapevolezza che l’arte della quale sono i depositari è un’arte nobile, antica, unica nel mondo della musica.
L’altro lavoro, quello incompiuto, non ci è dato di sapere quel che sarebbe stato, qualora Andreas fosse riuscito a concluderlo: possiamo soltanto immaginarlo. Esaminando il materiale che ci è avanzato possiamo soltanto fantasticare che se Andreas avesse continuato a vivere, se la sorte non l’avesse stroncato, come l’ha stroncato, disporremmo oggi di uno studio importantissimo, luminoso, per la conoscenza della cultura sarda.
Non posso fare a meno di commuovermi, quando mi sovviene il ricordo di questo giovane. Per me è stato come un fratello, per lui nutrivo una stima smisurata. Quand’è morto, ho provato un dispiacere che non ho parole per esprimere, non saprei come renderlo comprensibile. Quest’anno sono perfino stato in Danimarca, perché da sempre avevo il desiderio di andare dov’è sepolto, di portargli un fiore. Per fortuna ho trovato una sua cugina, che mi ha accompagnato alla tomba. È stato per me un momento difficile, perché un conto è sapere che uno è morto, lontano da noi, in Danimarca, a una distanza inimmaginabile, altro è andare a vedere dove questa persona riposa.
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